Archivi del mese: settembre 2022

Ventiseiesima Domenica per Annum

«Hanno Mosè e i profeti» (Lc 16,29).

Un uomo ricco è talmente preso dalle sue cose da non vedere che un poveraccio gli sta morendo sotto casa. Dopo la morte di entrambi, si ribalta il quadro iniziale: sembrerebbe il trionfo della vendetta di Dio. Invece è solo un ennesimo richiamo alla conversione. Il ricco rimpiange di non aver sfruttato le tante occasioni per cambiare e invoca un miracolo per “salvare” i fratelli. Speriamo di non esser tra quelli che chiedono segni, ma tra quelli che per convertirsi si “accontentano” del Vangelo. Buona domenica.


Anche i ricchi piangono!

XXVI per Annum – 25 settembre 2022

Prima lettura – Am 6, 1a.4-7 Ora cesserà l’orgia dei dissoluti. Dal Salmo 145: Loda il Signore, anima mia. Seconda lettura – 1Tm 6, 11-16 Conserva il comandamento fino alla manifestazione del Signore. Vangelo – Lc 16, 19-31 Nella vita tu hai ricevuto i tuoi beni e Lazzaro i suoi mali; ma ora lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti

Il Vangelo di domenica scorsa si concludeva, se vi ricordate, con una frase forte e chiara di Gesù: «Non potete servire Dio e la ricchezza» (Lc 16,13), come a dire: «Chi segue Dio, o si candida a essere suo discepolo, sappia che si è scelto un Dio parecchio geloso, che non accetta che i cuori dei suoi followers possano essere divisi su più amori!». A quelle parole del Signore, così ci riporta Luca, erano seguiti i commenti divertiti e sarcastici dei farisei: «I farisei, che erano attaccati al denaro ascoltavano tutte queste cose e si beffavano di lui» (Lc 16,14). In altri termini, i farisei prendono Gesù per scimunito, d’altronde loro, da una vita, riescono a tenere il piede in due scarpe servendosi di Dio (che apparentemente servono) per arricchirsi. Probabilmente qualcuno dei farisei avrà pure detto a Gesù: «Tu dici che ricchezza e Dio fanno a pugni… E come la mettiamo con la teoria della retribuzione?». Questa concezione, molto apprezzata dai farisei, sosteneva che le ricchezze e i beni che si possiedono sono frutto della benedizione di Dio, pertanto chi è ricco è un benedetto da Dio, chi è povero è un maledetto, uno che, da Dio, può avere solo riprovazione. Con la parabola che ci ha raccontato oggi, quella del ricco epulone (manciatario)e di Lazzaro il povero, il Maestro contesta la teoria della retribuzione e ricorda che la ricchezza, specie se mal usata, può diventare fonte di guai seri. Ma vediamo nel dettaglio la storia che Gesù racconta. «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti» (Lc 16,19). C’è un uomo veramente ricco e questo c’è lo dice il suo abbigliamento, tutto griffato, tutto D&G, CK, Armani o Versace, ma soprattutto il suo potersi permettere di non lavorare e di avere la casa perennemente piena di invitati. È una specie di Paperon de’ Paperoni, uno di quelli che nella classifica degli uomini più ricchi del mondo, stilata annualmente da Forbes, occuperebbe certamente i primi posti. È uno che quando vede soldi diventa cieco, annuorba. È un uomo certamente famoso, di quelli che oggi finiscono sulle pagine patinate, che hanno sempre i paparazzi appostati sotto casa, ma di lui, il Signore non ci fornisce il nome. «(C’era anche) Un povero, di nome Lazzaro. Bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco» (Lc 16,20-21). Lazzaro è un povero cristo, un disperato, un diunu&mortodifame, di cui nessuno si preoccupa, di cui nessuno si interessa, che nessuno cerca. Figurarsi se a qualcuno interessa come si chiama quel pezzente. Eppure, di lui, Gesù ci dice il nome. E per giunta è un bel nome (certo non lo metterei a mio figlio!), El Azar, Dio aiuta, Dio soccorre. Se dovessimo applicare la teoria della retribuzione, dovremmo dire che il ricco è un uomo giusto, benedetto da Dio e le sue ricchezze ne sono la dimostrazione, mentre Lazzaro sarà certamente un peccatore seriale e la sua povertà e la sua esistenza penosa lo gridano a chiare lettere. Invece… «Un giorno il povero morì… Morì anche il ricco» (Lc 16,21). I due uomini hanno un punto in comune: la loro condizione mortale, per entrambi arriva la morte. E quando la morte arriva non fa altro che segnare definitivamente il loro non incontro, la separazione. La situazione terrena si ribalta nell’aldilà: Lazzaro adesso è felice, frequenta il jetset del Paradiso, i pezzi grossi, mentre il ricco prova per la prima volta l’esperienza del bisogno. «(Il ricco) Stando negli inferi, tra i tormenti, alzò gli occhi e vide da lontano Abramo e Lazzaro» (Lc 16, 23). Una volta nel bisogno, il ricco alza gli occhi, quegli stessi occhi che, in terra, non si erano mai abbassati a guardare Lazzaro, che non si erano manco accorti delle sue necessità, adesso lo vedono accanto a, nientepopòdimenoche, Abramo. Usando il titolo di una famosa telenovelas sudamericana del ’79, che aveva come star indiscussa Veronica Castro nel ruolo di Mariana, potremmo dire «anche i ricchi piangono». «Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua» (Lc 16,24). Qui si svela un mezzo patatrac: il ricco sa il nome di Lazzaro! Questo ci dice che lo conosce e che, probabilmente, qualche volta, con sguardo tra il disgustato e l’indifferente, si sarà accorto di quel poveraccio davanti alla sua porta, così vicino, che se non ci stavi attento potevi inciamparci. Fare apposta a non vederlo era stato più comodo che dare una mano di aiuto. L’uomo pensa ancora che tutto gli sia dovuto e continua a impartire ordini, stavolta anche ad Abramo. Il ricco non è descritto come una persona particolarmente cattiva, ma, semplicemente, come un uomo totalmente assorbito dalle sue cose, dai suoi affari, dai piaceri della vita. La sua condanna non è per le azioni, ma per le sue omissioni. È vero, non ha fatto nulla di male, ma nemmeno bene! Il suo peccato è l’indifferenza, che è il contrario dell’amore. «Tra noi e voi è fissato un abisso» (Lc 16, 26). Gesù non vuole impaurirci descrivendo «le pene dell’inferno», né tantomeno vuole presentarci un Dio che si lega tutto al dito e che al momento opportuno ci fa pagare il conto, ma, semplicemente, ci ricorda che arriverà un momento in cui «sarà troppo tardi!». Il giudizio finale ce lo giochiamo «qui e ora», l’ultimo giorno non farà altro che svelare la qualità della nostra vita quotidiana. La morte sarà l’ora della verità, svelerà l’«opzione fondamentale», la scelta che, giorno dopo giorno, avremo messo in atto. Al Signore non interessa, allora, dirci come è l’aldilà, ma vuole insegnarci come vivere l’aldiquà, per preparare il nostro aldilà. In una canzone Baglioni cantava: «La vita è adesso» e un vecchio spot della Vodafone diceva: «Life is now». Togliamoci dalla testa che è Dio che ci metterà all’Inferno, in Purgatorio o in Paradiso: resteremo lì dove, da soli, con le nostre mani e con la nostra vita, ci saremo messi. Ricordiamo la grande affermazione di Agostino: «Chi creò te, senza di te, non salverà te, senza di te». «Ti prego di mandare Lazzaro nella casa di mio padre» (Lc 16,27). Il ricco si accorge, troppo tardi, che nella vita terrena ha sbagliato tutto e si ricorda dei cinque fratelli che, certamente, di lì a poco, rischia di ritrovarsi come compagni di sventura e invita Abramo a resuscitare Lazzaro, perché così, certamente, i suoi si ravvedranno. «Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti» (Lc 16,31). Con queste parole, Abramo risponde alle richieste di miracoli, segni e prodigi, che secondo il ricco, potranno far cambiare vita ai suoi fratelli. Gesù fa dire ad Abramo che le apparizioni sono semplicemente prurito religioso, rischiano di diventare uno spettacolo fine a se stesso. I miracoli o le visioni non sono capaci di cambiare il cuore. Non bastano i miracoli per suscitare la fede. Non servono fatti straordinari per giungere alla salvezza, serve «solo» guardarsi attorno e accorgersi degli altri, serve «solo» prendere il Vangelo e accorgersi dello spettacolo della Rivelazione che è l’unico che Dio ci ha donato.


Servire, essere servi, servirsi…

XXV per Annum – 18 settembre 2022

Prima lettura – Am 8, 4-7 Contro coloro che comprano con denaro gli indigenti. Dal Salmo 112: Benedetto il Signore che rialza il povero. Seconda lettura – 1Tm 2, 1-8 Si facciano preghiere per tutti gli uomini a Dio il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati. Vangelo – Lc 16, 1-13 Non potete servire Dio e la ricchezza.

Continuiamo a seguire Gesù nel suo viaggio verso Gerusalemme. Ormai è chiaro che il Maestro di Nazareth non è per nulla entusiasta della mole di gente che lo segue. E in queste settimane non ha risparmiato «suggerimenti» per i potenziali discepoli che avevano il gusto di veri e propri dissuasori. Anche la parabola di oggi assume i caratteri della dissuasione… A conclusione del Vangelo Gesù dice infatti: «Non potete servire Dio e la ricchezza» (Lc 16,13), come a dire: «Chi segue Dio sappia che è un Dio parecchio geloso e non vuole cuori divisi su più amori!». Ma vediamo la parabola. «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi» (Lc 16,1). Il Maestro racconta una parabola che sembra uscire da un Telegiornale dei nostri giorni. Il protagonista del racconto è l’amministratore delegato di una grande azienda che un giorno viene licenziato in tronco perché è accusato di avere dissipato i beni del patron dell’azienda. Il manager, accusato dal capo, nemmeno abbozza un tentativo di autodifesa. Ha la coscienza sporca e sa che i fatti che il presidente gli ascrive, sono veri. È un uomo in seria difficoltà: da un giorno all’altro ha davanti a sé la prospettiva di rimanere senza lavoro e, per giunta, con l’etichetta di ladro. Potrebbe fare finta di niente o magari temporeggiare, sperando che il padrone cambi idea… Potrebbe cadere nella disperazione, pensando magari di risolvere tutto con un gesto inconsulto… E invece riesce a guardare avanti, a cercare e trovare una soluzione. «Che cosa farò? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno (…) So io che cosa farò (…) Chiamo uno per uno i debitori del suo padrone…» (Cfr. Lc 16,3-5). L’amministratore, si ingegna per garantirsi il futuro, escogitando un modo per cavarsela, adottando una strategia per crearsi una rete di amici. Chiama i debitori dell’imprenditore e con un’operazione di falsificazione delle ricevute, li rende debitori verso se stesso, così che, anche se licenziato, avrà qualcuno che gli dovrà riconoscenza. Certamente le persone che ha favorito, lo aiuteranno. In breve ha trasformato la ricchezza in uno strumento per farsi degli amici. «Il padrone lodò quell’amministratore» (Lc 16,8). Ma come si può lodare un personaggio del genere? Quell’uomo è colpevole di falso in atto pubblico, truffa, appropriazione indebita e corruzione, come lo si può lodare, lo si può fare assurgere ad esempio da seguire? In realtà non viene lodata la disonestà dell’amministratore, il suo agire immorale, ma la sua «scaltrezza», cioè la sua capacità di reazione di fronte a un’emergenza. È un uomo, l’amministratore truffaldino, capace di giocarsi le sue carte al momento opportuno, sa fare, in breve tempo, il punto della situazione. In un attimo, con astuzia, si assicura il futuro. È un uomo geniale che con intelligenza e impegno riesce a salvarsi. «I figli di questo mondo sono più scaltri dei figli della luce» (Lc 16,8). Gesù ci suggerisce che bisognerebbe trasporre la scaltrezza usata per le cose della terra per pensare al domani, per ottenere la vita eterna. L’arte di cavarsela è già molto applicata nelle «imprese» di questo mondo, se solo mettessimo la stessa energia nel cercare le cose di Dio! «Non potete servire Dio e la ricchezza» (Lc 16,13). Sembrano parole ovvie… Ma non lo sono, se un versetto dopo Luca dirà: «I farisei, che erano attaccati al denaro ascoltavano tutte queste cose e si beffavano di lui» (Lc 16,14). I farisei ridono, lo hanno sempre fatto di servire Dio e di godersi le ricchezze… Ma hanno veramente servito Dio o se ne sono serviti? E noi? Chi serviamo? Dio? Lo spero… Ma lo serviamo, siamo servi, o ce ne serviamo? Si può servire qualcuno, si può essere servi di qualcuno, ci si può servire di qualcuno. C’è differenza fra servire e essere servi. Per notare la differenza chiediamo aiuto a Benigni e al suo capolavoro «La vita è bella»: «Guarda i girasoli: s’inchinano al sole, ma se vedi uno che è inchinato un po’ troppo significa che è morto. Tu stai servendo, però non sei un servo. Servire è l’arte suprema. Dio è il primo servitore; Lui serve gli uomini, ma non è servo degli uomini». Ma ci si può anche servire di Dio… Dichiararsi suoi fan, chiedergli l’amicizia su Facebook e poi metterlo in soffitta al momento opportuno, quando dichiararsi cristiani non è più conveniente. Chi serviamo? Se serviamo Dio, dovremmo cantare con Rita Pavone «Che m’importa del mondo, quando tu sei qui vicino a me» (Rita Pavone, Che m’importa del mondo)… Se abbiamo Dio, tutto il resto è game over.


Venticinquesima Domenica per Annum

«Il padrone lodò l’amministratore disonesto» (Lc 16,8).

Gesù racconta oggi una strana parabola, in cui addita come esempio da seguire un amministratore che non brilla certo per onestà. In realtà, il Signore loda il manager non per le sue truffe, né per gli altri reati, ma per la scaltrezza e l’immediatezza con cui si “assicura” il futuro. Anche noi siamo chiamati ad esser scaltri, ma per assicurarci la salvezza, l’unica e vera ricchezza. Buona domenica.


Ventiquattresima Domenica per Annum

«Il padre gli corse incontro» (Lc 15,20).

Gesù è criticato dai capi  d’Israele per le sue frequentazioni e per il suo feeling con i peccatori. Perché perdere tempo con gente che non cambierà mai? Gesù non fa polemica, ma racconta tre parabole (pecorella smarrita, dracma perduta e Padre sprecone di misericordia) per dire che Dio ha un debole per i peccatori e ha sullo stomaco chi si sente il primo della classe. A Dio non interesse sapere ciò che siamo stati o abbiamo combinato, ma quello che col suo aiuto possiamo diventare o fare. Buona domenica.


Non avere Dio significa non avere perdono

XXIV per Annum – 11 settembre 2022

Prima lettura – Es 32,7-11.13-14 – Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo. Dal Salmo 50: Ricordati di me, Signore, nel tuo amore. Seconda lettura – 1Tm 1,12-17 – Cristo è venuto per salvare i peccatori. Vangelo – Lc 15,1-32 – Ci sarà gioia in cielo per un solo peccatore che si converte.

Il Vangelo di oggi ci dona tre splendide parabole sulla Misericordia di Dio. La pagina del Vangelo che le contiene si apre così: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”» (Lc 15,1). Lo stare di Gesù con i peccatori suscita molte preoccupazioni e altrettante mormorazioni tra i farisei e gli scribi che si vantano di essere giusti agli occhi di Dio e addirittura di poter vantare qualche credito dinanzi a lui. «Perché perdere tempo con gente che non potrà mai cambiare? Che cosa c’entra Dio con i peccatori?» queste e altre le domande che, probabilmente annebbiano cuore e mente di scribi e farisei. I poveri capi religiosi dei Giudei si scandalizzano e disapprovano il feeling che c’è tra Gesù e i peccatori… Non sanno che si scandalizzano delle Misericordia di Dio. Nel mondo, da che mondo e mondo, ci sono due categorie di persone: i peccatori e coloro che si ritengono giusti. I primi si ritengono senza diritti, miseri, e trovano così il giusto modo per accostarsi alla misericordia di Dio. La conversione di chi si ritiene giusto invece risulta più difficile. Il loro ritenersi privi di miseria, gli preclude l’accesso alla misericordia. Gesù, non entra nel dibattito, ma spiega e giustifica la preferenza di Dio per i peccatori, raccontando quale e quanto grande sia l’Amore di Dio. L’Amore di Dio è capace di attendere, di perdonare, di placare i rancori, di ridare speranza ai senza speranza. È capace di vederti non per quello che uno è stato, ma per quello che può diventare. Dio, dice Gesù, non è solo disponibile a perdonare chi ritorna a lui, ma va anche, e affannosamente, alla ricerca di chi è perduto e non si dà pace finché non ritrova chi ha smarrito. Una ricerca ostinata, la sua. Ma guardiamo le parabole… «Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una , non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?» (Lc 15,4). La risposta logica a questa domanda di Gesù sarebbe: «Nessuno!». Nessuno può essere così incosciente da mettere a repentaglio la vita di un intero gregge per andare alla ricerca della pecora che si smarrisce. Si può essere dispiaciuti, ma non si può certo perdere tempo a cercare una pecora. E poi se mai la si ritrovasse bisognerebbe abbondare con le bastonate per insegnarle la lezione! E invece… Gesù ci dice che Dio ha difficoltà con i conti, avrebbe bisogno di alcune ripetizioni in matematica. Per Dio, infatti, 99 vale meno di 1! Dio perde la testa per uno solo. Noi non siamo per lui una massa indistinta, ma singoli. Dio è più soddisfatto per la conversione di un peccatore che di novantanove persone che si ritengono giuste, di novantanove «perfettivi», di novantanove primi della classe. La logica di Dio non segue il buonsenso o la logica umana. Dio n on accetta che qualcuno, uscito dalle sue mani vada perduto. E, addirittura, anche il peccato può diventare un’occasione per l’incontro che salva. «Quale donna se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova?» (Lc 15,8). Una moneta, una dracma, valeva un giorno di lavoro. È giustificato quindi l’entusiasmo della donna che dopo avere iniziato e portato a termine le ricerche, salta di gioia per averla ritrovata. E Gesù aggiunge: «Tanto più grande sarà la gioia di Dio per il ritrovamento di un peccatore». Possiamo tornare da ogni perdizione perché Dio è infelice senza di noi! La terza parabola è quella da sempre chiamata del «figliol prodigo» ma che in realtà andrebbe chiamata del «padre sprecone di misericordia». «Un uomo aveva due figli» (Lc 15,11), così inizia la parabola. Un uomo ha due figli. È un uomo ricco e i figli sono già adulti. I due figli sono accomunati dalla poca felicità e dalla stessa pessima idea del padre. Il primo lo immagina come un concorrente, uno che ti limita nella tua realizzazione e che è meglio ritenere morto per potere avere libertà d’azione. L’altro lo vede come uno da temere, da tenere buono, trasformandosi in un servo, convinto di accumulare premi e meriti. «Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”» (Lc 15,12). Il figlio minore non ne può più di quel padre che gli sta troppo col fiato sul collo e decide di andarsene di casa, perché gli manca l’aria, non vive più. Ma non può andare via a mani vuote e chiede di avere l’eredità. Sappiamo bene che all’eredità di qualcuno si accede solo dopo che quel qualcuno è morto. Quindi, chiedendo l’eredità, il giovane sta dicendo al padre: «Tu per me sei morto!». La richiesta del figlio è sconcertante, ma il padre non si scompone. Acconsente, lascia che il figlio lo umili e calpesti il suo amore. Lascia che il figlio segua i suoi sogni e i suoi desideri, anche se è certo che si farà del male. Dio ci considera adulti, affida alle nostre mani le decisioni, non si sostituisce alle nostre scelte. «Ed egli divise tra loro le sue sostanze» (Lc 15,12). Il padre fa una cosa non giusta. Secondo la Legge era il primogenito a ereditare due terzi del patrimonio paterno, mentre gli altri figli dovevano accontentarsi della restante parte, ma solo alla morte del genitore. «Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla» (Lc 15,13-16). Il giovane va via, in cerca di libertà. Va in un paese lontano, perché tanto più sarà grande la distanza dal padre, tanto più sarà grande la sua libertà. Ma le cose non vanno come credeva. Il suo sogno si interrompe e si risveglia in mezzo ai porci. Il suo menù non prevede più il pane della casa del padre, ma le carrube che non riesce manco a mangiare perché la voracità dei maiali è tanta. «Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre» (Lc 15,17-20). Contesto le interpretazioni buoniste della parabola. Il figlio non ha un moto di conversione, ma semplicemente prende coscienza della sua condizione penosa. È caduto veramente in basso. È un grande opportunista e agisce sempre, soltanto e unicamente per interesse. È l’interesse che determina il suo modo di vivere, di pensare, di essere. Per interesse ha lasciato la casa del padre, per interesse adesso vuole tornare. Non gli manca il padre, ma il pane di suo padre. Non vuole un padre, si accontenta di un padrone, purché non manchi il cibo. Si prepara il suo bel discorsetto: riuscirà anche stavolta a prendere in giro quel tonto, quello scemo di suo padre, pensa tra sé. «Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa» (Lc 15,21-24). Come nei migliori film ecco il colpo di scena: il padre lo sta aspettando! Ha rispettato il figlio nella sua ricerca della felicità e della libertà, ma non lo ha dimenticato. Il padre è come Dio, non ha figli da perdere o da buttare. Il padre non dà al figlio neanche il tempo di interpretare il monologo che si era inventato per chiedere il perdono, ma gli concede il perdono correndogli incontro, restituendogli la dignità di uomo e di figlio. Non importa il motivo per cui ritorna. Non lo sottopone a un esame per stabilire il grado di pentimento. Basta che ritorna. Il figlio, travolto da questa misericordia sovrabbondante, comprende che il padre, non solo lo ha sempre atteso, ma lo ha continuato ad amare, anche quando lui lo odiava. Solo allora nasce in lui il pentimento, dinanzi a quell’amore infinito e fedele del padre, che lo ha spiazzato. Solo allora capisce che il suo vivere lontano da casa del padre è stato un vivere lontano dal senso vero della sua vita. È un nuovo inizio, c’è un’altra chance per lui, una nuova opportunità. «C’è una strada in ogni uomo, un’opportunità» (Adriano Celentano, Ti penso e cambia il mondo). «Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino
a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare» (Lc 15,25-28). Il figlio maggiore esplode con rabbia e con risentimento. Come dargli torto? È sempre stato a casa, vivendo da schiavo per dare piacere e soddisfazione a suo padre e non ha mai avuto in cambio nemmeno un «Grazie!». Ora arriva il figlio scapestrato, il figlio schifoso, il figlio che lo ha ritenuto morto e il padre si mette a fare festa. Questo figlio è proprio come gli scribi e i farisei che mormorano contro Gesù. È rimasto a casa, ha cercato di essere fedele, ma con l’animo del servo soggetto a un padrone. «Suo padre allora uscì a supplicarlo» (Lc 15,28). Il padre ripete quanto fatto in precedenza per il figlio minore. Non vuole perdere proprio nessuno. La parabola non ha una conclusione. Non sappiamo cosa sia accaduto, se il fratello maggiore sia entrato in casa, se tra i due fratelli ci sia stato un abbraccio… Il finale è aperto. Non c’è l’happy end, l’«E vissero felici e contenti» come ogni favola che si rispetti. Ognuno di noi può e deve entrare in questa storia per completarla, per scrivere il finale. Siamo tutti un po’ come il figlio minore, un po’ come il figlio maggiore. Possiamo guardare a Dio come a uno che ci limita nella libertà (Cfr. figlio minore), o come uno da tenere a bada, facendo sacrifici, con una fede ossequiosa, ma che non ci fa esplodere il cuore di gioia (Cfr. figlio maggiore). Oppure… Riconoscere in Dio un Padre che scruta l’orizzonte, che corre, abbraccia e bacia, che non rinfaccia e non chiede ragione delle nostre scelte, che non accusa, ma restituisce dignità. Che vede non quello che siamo stati, ma quello che possiamo e dobbiamo diventare. Dio è così! Il Dio dei cristiani è differente (come la banca). È esagerato, eccessivo, sprecone… Ma non vuole perdere nessuno. In un libro di Faletti, qualche giorno fa leggevo il dialogo tra Frank, uno dei protagonisti del romanzo e un sacerdote, padre Kenneth: «Io non credo in Dio. E questo non è un vantaggio. Perché questo significa che non c’è nessuno che mi perdona per il male che faccio» (Giorgio Faletti, Io Uccido). Sono parole terribili, dolorose. Ma portatrici di una immensa verità. Non avere Dio significa non avere perdono. Noi cristiani siamo fortunati, abbiamo un Dio disposto a perdonarci per tutto il male che facciamo.


Ventitreesima Domenica per Annum

«Chi non mi ama più della sua vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26).

Gesù mette in guardia chi, con troppa facilità e non considerando la radicalità della sequela, si candida a seguirlo. La vita cristiana non è un fatto di un momento, di un’emozione, ma richiede libertà di scelta e perseveranza.  Vogliamo seguire il Signore come un rimorchio segue la motrice o lo vogliamo accanto come il navigatore in una corsa di rally? Buona domenica.


Motrici, rimorchi e corse di rally

XXIII per Annum – 4 Settembre 2022

Prima lettura – Sap 9, 13-18 – Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? Dal Salmo 89: Signore, sei stato per noi un rifugio di generazione in generazione. Seconda lettura – Fm 9b-10. 12-17 – Accoglilo non più come schiavo, ma come un fratello carissimo. Vangelo – Lc 14, 25-33 Chi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.

Prosegue il cammino del Signore verso Gerusalemme. Gesù, in questo viaggio, è seguito da una grande folla. In tanti pensano che il Maestro di Nazareth sia il messia atteso e il suo viaggio a Gerusalemme sia finalizzato alla conquista del potere politico. E questo, per molti, è veramente un buon motivo per farsi suoi discepoli. Altri seguono Gesù in attesa di vedere segni e miracoli, perché questo strano maestro ex falegname ne fa di tutti i colori. Gesù invece di approfittarne e di cercare di accrescere il consenso dilagante, magari promettendo mari e monti, o divertendosi con gli effetti speciali, riserva a tutti una doccia fredda. Infatti, per nulla lusingato dal successo e dalla popolarità, consapevole del fatto che molti gli vanno dietro solo per motivi superficiali e per interesse, pone tutti di fronte alle esigenze radicali della sequela, per scoraggiare chi si era candidato, con troppa facilità, a seguirlo. Gesù si gira verso la folla per spiegare cosa significa diventare suoi discepoli, cosa significa seguirlo sul serio. «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,25-26). Ecco la prima condizione. Il Signore ci dice che per seguirlo dobbiamo pagare un prezzo alto, «rinunciando» alle relazioni più importanti della vita e, addirittura, anche all’istinto primordiale dell’autoconservazione. Parole difficili e pericolose! Tranquilli nulla di pericoloso! Il Signore sta «solo» dicendo: «Sei disposto a preferirmi a tutto, fossero anche le tue relazioni fondamentali? Sei disposto a rinunciare anche alla tua vita, ai tuoi progetti, per seguirmi? Sei disposto a scomodarti, a svegliarti dal letargo, per seguirmi? Sei disposto a seguirmi senza la sicurezza di un legame di sangue?». L’amore per il Signore non esclude gli altri amori, ma li ordina. L’amore per Gesù deve superare ogni altro amore. In una scala di valori, l’amore per il Signore è al primo gradino. «Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo» (Lc 14,27). Ecco la seconda condizione… «Portare la croce» non significa subire silenziosamente i momenti tristi e le sofferenze che la vita ci riserva («Calati juncu ca passa la china – Piegati giunco, che passa la piena del fiume»), non è un invito alla rassegnazione, ma significa scegliere una vita che assomigli a quella di Gesù, significa accettare il disprezzo della società (Chi era condannato a morire in croce era considerato il rifiuto dell’umanità) e la solitudine che spesso la scelta di adesione a Cristo comporta. «prendere la croce» significa anche riconoscere i propri limiti, significa responsabilizzarsi, significa vivere fino in fondo la vita che il Signore ci dona di vivere, significa fare scelte giuste, senz’altro costose e sofferte, ma certamente le più giuste. «Prendere la croce» significa accettare la propria morte, significa lasciare che sia la morte a dare carattere di urgenza alla vita e, insieme, a farci comprendere che la vita non è solo data, ma anche donata. Quando non si pensa alla morte, la vita diventa falsa e menzognera. La morte ci obbliga all’autenticità della vita. «Chi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (Lc 14,33). Questa terza condizione è corredata da due parabole: quella del costruttore della torre e del re che va in guerra. Gesù ci ricorda che per seguirlo è necessario fare i conti con le proprie capacità, bisogna valutare le proprie forze, bisogna ricordarsi che il discepolo non è chiamato solo a iniziare il cammino, ma anche a portarlo a compimento, considerando che non conta la velocità del procedere, ma la perseveranza nell’andare. Parlando di rinuncia a tutto quello che si possiede, il Signore vuole suggerirci che la sicurezza non sta in quello che si ha, ma in quello che si è, in quello che si vuole essere. Non bisogna «attrezzarsi», ma liberarsi delle presunte sicurezze. A questo punto una domanda ci sgorga dal cuore «E chi può essere discepolo a questo modo, con queste condizioni?». È probabilmente meglio, perché più facile, vivacchiare da buoni cattolici semi praticanti. È meglio assumere il cristianesimo in piccole dosi, come fosse un farmaco, per evitare possibili reazioni allergiche. È meglio un Cristianesimo che non costa nulla, quello della sola messa la domenica e poi quando si torna a casa, la vita è sempre la stessa. Eppure Gesù ci dice che essere discepoli è una cosa seria… Chiediamoci se e perché vogliamo essere suoi discepoli… Siamo disponibili a seguirlo mettendo davanti a lui anche i nostri affetti più cari? Siamo disposti a seguirlo anche quando il cammino dovesse farsi duro e insidioso? Siamo disposti ad amarlo senza fare calcoli? La sequela non è fatta per i superficiali, è una scelta di non ritorno! Chiediamoci: «Vado dietro a Cristo come un rimorchio segue la motrice o il Signore è il copilota, il navigatore, nella gara di rally che è la vita?». Quella di seguire il Signore è una proposta tanto sconcertante quanto affascinante, ma certamente solo Dio può colmare la nostra inquietudine, lui solo può riempire il nostro bisogno di infinito. Seguire Gesù è impresa non facile, dura, ma rende felici.