Archivi del mese: ottobre 2021

Du gust is megli che uan

XXXI per Annum – 31 Ottobre ‘21

Prima lettura – Dt 6,2-6: Ascolta, Israele: ama il Signore tuo Dio con tutto il cuore. Dal Salmo 17: Ti amo, Signore, mia forza. Seconda lettura – Eb 7,23-28: Egli, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Vangelo – Mc 12,28b-34: Questo è il primo comandamento, il secondo poi gli è simile.

Per riuscire ad entrare nel Vangelo di oggi, dobbiamo sapere cosa è successo prima. Gesù è riuscito a sfuggire a due domande trabocchetto, di quelle fatte solo per farti cadere o per farti fare una figuraccia. A fare la prima domanda sono stati un gruppo di farisei e di erodiani (come dire il diavolo e l’acqua santa…) che avvicinandosi gli hanno chiesto: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno, ma insegni la via di Dio secondo verità. È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?» (Mc 12,14). Una domanda semplice, apparentemente innocua, ma in realtà un bel trabocchetto, una domanda micidiale, una bella mela avvelenata! Comunque vada, Gesù è con le spalle al muro! Se il Maestro risponderà «Sì!», potranno accusarlo di essere nemico della sua gente e collaborazionista dei romani; se risponderà «No!» potranno accusarlo di essere un sovversivo anarcoinsurrezionalista e potranno denunciarlo ai romani. La risposta di Gesù è semplice ma incisiva. Si dice dalle nostre parti: «Parra muoddu e mpiccica ruru – Parla morbido e attacca duro». «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21). Da restare senza fiato! Gesù dice «Non fate confusione… Non mescolate le cose». Non sta dicendo che bisogna fare «fifty/fifty» tra Cesare e Dio, ma sta dicendo che è necessario occuparsi prima del «di dentro», del progetto di Dio, il resto verrà di conseguenza, che è importante occuparsi prima delle cose ultime perché le cose penultime siano trasformate. Il Maestro ci sta suggerendo di riconoscere la signoria di Dio nella nostra vita per vivere con un’assunzione di responsabilità per non essere disincarnati. La seconda domanda gli è stata posta dai sadducei, che non credevano nella risurrezione dei morti e lo interrogano proprio su questo, sulla risurrezione dei morti. Anche in questo secondo caso Gesù se l’era cavata egregiamente: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe, non è Dio dei morti, ma dei viventi! Voi siete in grave errore» (Mc 12,25s). Dinanzi a uno che parla così e che riesce a svincolarsi con tanta facilità da ogni attacco, non si può non restare incantati. Ed viene quasi naturale chiedergli qualcosa, chiedergli qualcosa di importante. E uno scriba non si lascia scappare l’occasione: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?» (Mc 12,28). Sembra una domanda banale, ma non lo è affatto. Tutto per i Farisei è diventato sterile osservanza di precetti. Vivevano per la Legge, cercavano di capirla, studiarla, interpretarla e interpretandola l’avevano trasformata in un manuale d’istruzione pesantissimo, insopportabile (avete presente quei manuali d’istruzioni noiosissimi che si trovano in certi elettrodomestici?). Pensate che partendo dai 10 comandamenti, li avevano trasformati in 613 norme (365 proibizioni, una al giorno, e 248 precetti, uno per ogni osso umano)! Quindi quell’uomo sta facendo una domanda veramente interessante: «Quale è la cosa importante, anzi la più importante per la vita di tutti i giorni? Per cosa vale la pena vivere?». Si capisce subito che lo scriba è uno in ricerca, un cercatore di Dio. Vuole sapere come potere incontrarlo. Gesù, da buon ebreo, conoscitore della Scrittura, rimanda lo scriba a due testi della Parola di Dio: Il primo è: «Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi» (Mc 12,29-31). Bravo Gesù! Risposta esatta, perfetta. Nulla da aggiungere o da togliere. Ma attenzione, lo scriba aveva chiesto un comandamento, il maestro ne ha dati due, perché? Perché il comandamento dell’amore di Dio si fa’ tutt’uno con quello dell’amore al prossimo. Gesù ha risposto in modo prevedibile, ma è andato all’essenziale. Gli ha appena donato il Bignami della Scrittura: non sforzarti di fare mille cose, di compiere mille sacrifici, basta una cosa, solo una, Amare. Per essere felici, l’unica strada è Amare. «Amerai il Signore…» (Mc 12,29). Ma come? Ci hanno riempito la testa che il Cristianesimo è una proposta, che il nostro Dio non si impone, ma si propone e ora Gesù ci comanda di amare Dio? Ma, poi, si può comandare di amare qualcuno? L’amore è scelta di libertà, è sentimento, è emozione. La risposta è semplice e la da Gesù stesso: «Ascolta, Israele», cioè: «Ascolta, Israele, c’è forse qualcuno che ha fatto per te le cose che ha fatto il tuo Dio? E quindi, di conseguenza, non puoi non amarlo! Non ti accorgi quanto Dio ti ama? E allora ama perché sei immensamente amato, ama come riesci, come puoi». «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza» (Mc 12,30), in altre parole con tutto noi stessi. Il Signore si premura di ricordarcelo perché sa che potremmo amare Dio con la sola mente, riconoscendo che esiste, che Gesù è venuto a salvarci, ma senza che nella nostra vita cambi nulla, continuando a vivere come se Dio non ci fosse. Potremmo amare Dio solo con il cuore, con tanto sentimentalismo, commuovendoci per la bontà di Dio, stando bene in chiesa dalla mattina alla sera, ma con la vita che resta lontana anni luce dal Vangelo, senza il coraggio di riconoscersi apertamente cristiani. Potremmo amare Dio solo con le nostre forze, facendo tante cose che ci fanno sentire «a posto», sforzandoci di essere persone corrette, ma con l’anima che resta lontana e non sentendoci né felici, né amati da Dio. «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Mc 12,33). È scandaloso che Gesù metta l’amore per Dio sullo stesso piano dell’amore per il prossimo. Il Maestro sta dicendo l’inscindibilità dei due comandamenti: amare Dio è pura astrazione se non si esprime nell’amore ai fratelli. Dio non se ne fa’ nulla del nostro amore, se non si manifesta verso i fratelli. Non posso dire di voler bene ad un amico se poi vado sotto casa e gli distruggo la macchina! Gesù sta dicendo pure che non c’è differenza tra i due comandamenti, sono due facce della stessa medaglia. Ma non sono intercambiabili, non si possono usare come cartucce compatibili. Devono esserci entrambi. Ma che significa «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Mc 12,33)? Significa forse che dobbiamo andare in giro ad abbracciare e baciare tutti? Oppure che dobbiamo andare in giro a dire a tutti: «Ti amo o T.V.B.»? No, tranquilli, amici, non corriamo il rischio di finire catalogati come matti! Gesù ci dice come fare: «Ama gli altri come ami te stesso» (Cfr Mc 12,33). In altri termini, ama gli altri come ami te stesso, riconoscendo che tu e gli altri siete dei capolavori, dei pezzi unici, pensati dall’eternità. «Ama e fa’ ciò che vuoi» diceva Agostino. Ama sapendo che «l’amore ha l’amore come solo argomento» diceva Fabrizio de Andrè.


Trentunesima Domenica per Annum

«Amerai il Signore…Amerai il tuo prossimo» (Mc 12,30-31).

Uno scriba, affascinato dalla saggezza Gesù, gli chiede quale tra i comandamenti sia il più importante. Il Maestro non è impreparato, ha studiato al “catechismo” e da la risposta esatta: “Bisogna amare il Signore e l’unico modo per farlo è amare il prossimo”. Il Signore non se ne fa nulla del nostro amore, se non si riversa sui fratelli. Buona domenica.


Trentesima Domenica per Annum

«Che io veda» (Mc 10,51).

Gesù sulla via per Gerusalemme incontra Bartimeo,un cieco. L’uomo chiede a Gesù di riavere la vista,ma alla fine prende due piccioni con una fava. Ottiene dal Signore due miracoli in un solo colpo:riottiene la vista e guadagna la fede,una fede capace di vedere l’invisibile e sperare l’impossibile. Chiediamo al Signore di farci venire alla luce della fede perché neanche il buio più buio possa farci paura. Buona domenica.


Due piccioni con una fava

XXX per Annum – 24 Ottobre ‘21

Prima lettura – Ger 31,7-9: Riporterò tra le mie consolazioni il cieco e lo zoppo. Dal Salmo 125:Grandi cose ha fatto il Signore per noi. Seconda lettura – Eb 5,1-6: Tu sei sacerdote per sempre, alla maniera di Melchisedek. Vangelo – Mc 10,46-52: Rabbunì, che io riabbia la vista!

Il viaggio di Gesù verso Gerusalemme è ormai giunto alla fine. Oggi ci troviamo a Gerico, a trenta chilometri dalla Città santa. Gerico è una città importante e molto ricca. Da Gerico, con alla testa Giosuè, il successore di Mosè, Israele aveva fatto il suo ingresso nella tanto sognata Terra Promessa. Gerico, data anche la breve distanza che la separa dalla Città santa, è anche l’ultima tappa per i pellegrini che stanno salendo a Gerusalemme. Forse anche per questo all’uscita della città, nella strada per la Città santa, si ammassano tanti mendicanti, nella speranza di riuscire a ottenere qualche spicciolo. Fra questi mendicanti, c’è anche un cieco, un certo Bartimeo. È fermo ai bordi della strada, non può fare altro che aspettare la generosità di qualcuno che gli doni qualcosa. Vive di elemosina. Nessuno aveva ancora inventato i sussidi per l’invalidità. Anche noi spesso siamo seduti ai margini della strada come dei mendicanti, adattati al ribasso, in attesa di qualcosa o di qualcuno che dia significato ai nostri giorni. Per Bartimeo è una giornata come tante altre: a fatica ha raggiunto la sua postazione, ha piegato il mantello sulle sue gambe e adesso ha cominciato a chiedere l’elemosina. Ad un certo punto sente rumori di folla, gente che chiacchiera, parla, grida e si informa su cosa stia succedendo. Qualcuno gli risponde: «Sta passando Gesù! Il Maestro di Nazareth che ha fatto tanti miracoli! Sa restituire dignità ad ogni uomo. Non è né medico, né mago, né un sacerdote del Tempio, ma sa parlare di Dio come nessuno ha mai fatto!». Bartimeo ha sentito parlare di Gesù, della cose straordinarie che diceva e faceva e adesso quel Maestro stava passando proprio da lì, dalla «sua» strada. Nel suo cuore germoglia la fiduciosa speranza che proprio quel Gesù possa restituirgli la vista perduta. Non c’è tempo da perdere, non può farsi scappare l’occasione e comincia a urlare: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!» (Mc 10,47). Chi gli è accanto è infastidito e lo sgrida, intimandogli di tacere. I poveri disturbano, in ogni epoca! «Taci, fratello, Gesù di uno come te non sa che farsene». Ancora oggi in tanti mettono a tacere chi cerca il Signore. Ci sono quelli che lo fanno perché reputano fesserie le cose che riguardano l’interiorità, altri che «né cogghinu né fannu cogghiri – Né raccolgono, né fanno raccogliere», altri che, essendo credenti (o pseudo tali…) mettono paletti, regole e limiti agli ultimi arrivati, altri ancora che sono infastiditi da ogni voce diversa dalla propria. Ma quella di Bartimeo è una richiesta che si fa ostinata e contraria e non si lascia intimorire né dai rimproveri, né dalle minacce e grida, grida ancora più forte. Non gliene frega niente di quello che pensa o vuole la gente. Bartimeo si distingue per il coraggio e la perseveranza nel cercare il Signore. E Gesù, attento soprattutto ai margini della strada, toccato dalla preghiera del cieco, si ferma e lo manda a chiamare. Gli fa da tramite quella stessa folla che fino a poco fa per Bartimeo era un muro invalicabile, una sorta di tappo che voleva chiudergli la bocca e tarpagli le ali. Ancora oggi il Signore sceglie di raggiungerci attraverso il volto di un fratello e, nella strada della vita s’incontrano persone che ci aiutano a trovarlo. Solo chi lo ha conosciuto e riconosciuto Signore può condurre a lui. «Coraggio! Alzati, ti chiama!» (Mc 10,49). E Bartimeo comincia a guarire… Comincia a guarire in quel Maestro che non se ne va per la sua strada, ma si ferma con lui e per lui. Comincia a guarire nell’accoglienza e nella compassione di Gesù, che decide di entrare nella sua vita. Bartimeo risponde, getta a terra il mantello, compagno di vita, coperta per la notte, proprietà inalienabile e corre verso Gesù. Bartimeo corre anche se non vede e in quel mantello che gli cade, lascia tutte le sue sicurezze, tutto quello che potrebbe ostacolarlo nel cammino, per riporre tutta la sua fiducia nel Signore. Anche noi spesso gridiamo il nostro dolore a Dio, ma non siamo disposti a fidarci di lui, a corrergli incontro, a liberarci del mantello delle nostre finte sicurezze. «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (Mc 10,51). Ma che domande fa sto Gesù? È lampante quale è il problema di Bartimeo, è cieco, che bisogno c’è di chiedere cosa vuole? Ma il Signore non forza nessuno, non obbliga nessuno, neppure quando si tratta di un miracolo! «Rabbunì, che io veda di nuovo!» (Mc 10,52). Come gli si può dire di no? Ha voluto con tutto se stesso quel dono e Gesù non glielo può negare. Una traduzione dal greco veramente interessante dice: «Che io veda dall’alto». Se diamo per buona questa traduzione, Bartimeo sta chiedendo a Gesù non solo la guarigione fisica, ma anche la capacità di vedere bene le cose, con il giusto sapore, nel giusto modo, facendo nuove le cose che abbiamo. «Va’, la tua fede ti ha salvato» (Mc 10,52). Bartimeo ottiene da Gesù due miracoli in un solo colpo… Prende due piccioni con una fava… Riottiene la vista e guadagna la fede. Ma forse il vero miracolo è quello della fede, una fede capace di vedere l’invisibile e di sperare ciò che sembra impossibile. «E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada» (Mc 10,52). Bartimeo comincia a vedere e senza il minimo tentennamento si mette a seguire Gesù. Chissà cosa avremmo fatto noi… Forse saremmo tornati indietro a recuperare il mantello e le monete dell’elemosina, o forse ce ne saremmo andati in giro per Gerico a goderci la splendida giornata. Invece Bartimeo ha le idee chiare: diventa discepolo di Gesù, entra nella salvezza, intesa come un cammino perseverante dietro a Gesù, in una quotidiana relazione con lui. Per vedere occorrono tre cose: gli occhi, le cose da vedere e la luce. A Bartimeo ne mancava solo una, la più importante, cioè gli occhi. E a noi cosa manca? Gli occhi ce li abbiamo. Le cose da vedere ci sono. La luce pure. Non ci manca niente. Non abbiamo bisogno di Gesù. Possiamo dire al Signore che non ci serve niente, che se può, deve ripassare quando avremo bisogno. Ma siamo proprio sicuri che vediamo le cose vere della vita? Noi di fronte alla cose vere della vita siamo come quando si entra in una stanza dopo che si è stati al sole, per un po’ non si riesce a vedere nulla perché si è abbagliati. Siamo abbagliati da tante cose e non riusciamo più a vedere quello che conta. «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (Mc 10,51). Questa domanda Gesù la fa anche a noi. Potremmo chiedere tante cose… C’è solo l’imbarazzo della scelta… Chiediamone solo una: la Luce. Non innamoriamoci della nostra cecità. Il cristiano vive le difficoltà e i problemi di tutti, attraversa le gallerie e i tunnel delle difficoltà come tutti, non è diverso dagli altri uomini, non ha assicurazioni o agevolazioni, solo ci vede alla luce del Vangelo, ci vede nel buio aiutato dai fari della fede. E le cose non gli fanno più paura.


Servi, servitori e girasoli…

XXIX per Annum – 17 Ottobre ‘21

Prima lettura – Is 53,10-11: Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza. Dal Salmo 32: Donaci, o Dio, la sapienza del cuore. Seconda lettura – Eb 4,14-16: Accostiamoci con fiducia al trono della grazia. Vangelo – Mc 10,35-45: Il Figlio dell’uomo è venuto per dare la propria vita in riscatto per molti.

Da qualche settimana Gesù ha intrapreso un viaggio. È diretto, insieme ai suoi discepoli, a Gerusalemme. Durante il viaggio, il Maestro ha annunciato ai suoi, per tre volte, che a Gerusalemme non vanno né per una gita, né per un weekend rilassante, né per una vacanza religioso-culturale, ma stanno andando incontro a qualcosa di non facile. Il Signore sa che la salita alla Città santa implicherà ostilità da parte delle autorità religiose di Israele e non è da escludere l’ipotesi di essere eliminato, levato di mezzo, perché sta diventando fastidioso e pericoloso. I discepoli pare non abbiano colto la gravità della situazione e quale sia il dramma che il loro Maestro inizia a vivere, e puntualmente dopo ogni annuncio della possibile sofferenza, i Dodici fanno discorsi assurdi. La prima volta, dopo il primo annuncio, era stato Pietro a ribellarsi alle dichiarazioni di Gesù, ma si era preso un solenne rimprovero. La seconda volta, dopo il nuovo annuncio della passione, sono i Dodici in toto a fare una solenne malafiura cominciando a discutere su chi tra loro fosse il più grande. La terza volta, lo abbiamo appena sentito nel Vangelo, sono Giovanni e Giacomo a presentarsi a Gesù accampando diritti: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo» (Mc 10,35). I due cercano di piegare Gesù alle loro esigenze. Anche a noi capita di far questo. Le nostre richieste, sotto le mentite spoglie di preghiera, vorrebbero piegare la volontà di Dio, alla nostra volontà. Il Dio di Gesù Cristo, il Dio dei cristiani si trasforma così in una sorta di distributore automatico (basta inserire una moneta una pseudo preghiera ed esce la grazia…) o peggio ancora, nel Genio della lampada di Aladino (strofino la lampada con le mie pseudo preghiere e ottengo almeno tre desideri…). «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» (Mc 10,37). Gesù è ormai un Maestro affermato, ha successo con la gente, ci sa fare, ha il suo fascino, è uno che si è fatto da solo. Occorre cominciare a pensare al futuro governo di Israele con a capo Gesù e i due si ritengono adatti al ruolo di stretti e diretti collaboratori. In altri termini si auto raccomandano. Cercano di ottenere dal Signore una decisone o almeno la garanzia che la scelta ricadrà su di loro. Giovanni e Giacomo, manifestano tutta la loro incapacità di capire cosa significhi veramente stare con Gesù. Per loro, stare dalla parte di Gesù Messia significa gloria e potere. Su cosa si basa la loro richiesta? Forse a motivo della loro anzianità di servizio, sono i discepoli della prima ora. Forse per il loro zelo nello stare accanto a Gesù, tanto da meritarsi il soprannome di boanerghes, figli del tuono, per il loro carattere vigoroso. È certo che i due figli di Zebedeo hanno frainteso il messaggio di Gesù, hanno frainteso il suo essere Messia. Loro pensavano a un Messia liberatore d’Israele che, con un bel calcio nel sedere, avrebbe rispedito gli odiati Romani al di là del Mediterraneo. Giovanni e Giacomo, così come tutto il resto della ciurma, pensano che la salita a Gerusalemme sia finalizzata alla conquista del potere. Gesù avrebbe potuto metterli in difficoltà con delle semplici domande: «Gli altri sono d’accordo?», «Vi siete confrontati?»; ma preferisce accoglierli e amarli come sempre pur con l’amarezza di essere incompreso anche da chi gli vive accanto quotidianamente. «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?» (Mc 10,38). Gesù vuole spiegare loro le esigenze del Vangelo che non è fatto di ruoli da coprire e ricoprire, ma di vite da dare e donare. Gesù invece li riporta alla realtà della sua esperienza. Stare con lui è scendere da ogni possibile piedistallo e perdere ogni sicurezza, e iniziare un cammino di abbassamento che porta al servizio, al dare la vita e persino a perdere la vita. Il Signore sta dicendo: «Se non passate dentro i drammi della gente, se non condividete, dal di dentro la sofferenza altrui, se non vi lasciate coinvolgere dalle situazioni disperate delle vite altrui, se la vostra voce non è risposta ai problemi della vita, la vostra rischia di essere solo commedia, ben fatta forse, ma solo commedia». Gesù prosegue il dialogo con i due fratelli, dicendo: «Sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato» (Mc 10,40). Nell’ora della Croce, i posti rivendicati adesso da Giacomo e Giovanni saranno occupati da due malfattori e Gesù sarà in mezzo a loro, su una croce che da strumento di tortura diventerà trono di gloria. «Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni» (Mc 10,41). Come era prevedibile la richiesta dei figli di Zebedeo, rende unanimi nella gelosia gli altri del gruppo. Non vogliono essere da meno. Chi li ha autorizzati a chiedere un qualcosa che anche loro avrebbero chiesto, prima o poi? Uno spettacolo indecoroso, che il Vangelo registra senza pietà, ma con una schiettezza disarmante. Non dobbiamo fingere di scandalizzarci di fronte alle richieste di Giovanni e Giacomo, come hanno fatto gli altri discepoli. La tendenza al dominio, l’ambizione personale, la competizione sono nel DNA di tutti noi. Il potere affascina tanto. E tutti siamo affetti dalla Sindrome del Grande Fratello, che finisce per farci vedere nell’altro, «solo» un nemico da nominare, da eliminare. «I governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (Mc 10,42-43). Gesù non fa una crociata contro il potere, non vuole favorire l’umilismo, non condanna l’aspirazione dei due fratelli e del resto dei discepoli, ma ne precisa il metodo. La questione cioè non è sul desiderio di grandezza, ma sul come ottenerla. Non è un male volere essere i primi. Essere ambiziosi, cercare di migliorare se stessi, volere raggiungere ciò che sogniamo, non vi è nulla di male in tutto questo, non è proibito e non è peccato Ma il Signore presenta un’altra strada… All’immagine di un capo che comanda oppone quella del capo che serve. All’idea di un Dio che va servito, oppone quella di un Dio che serve. Questa è la definizione più spiazzante e rivoluzionaria di Dio: Dio servitore. Significa, e questa è la differenza cristiana, che non è l’uomo creato per conoscere, amare e servire Dio, ma è Dio che esiste per amare e servire l’uomo. Sono parole che dovrebbero farci venire le vertigini. Vanno in pezzi le idee che su Dio ci siamo fatti. Non siamo più «patruni e sutta», anzi… Dio non è il padrone incontrastato dell’universo che tiene il mondo ai suoi piedi, ma è Lui che è ai piedi delle sue creature. Ma c’è differenza tra «l’essere servo» e «l’essere servitore»? Credo proprio di sì! Per capirlo ci facciamo aiutare da Roberto Benigni e dal suo capolavoro La Vita è bella. In quel film Benigni è Guido che trasferitosi da Arezzo a Firenze, inizia a lavorare come cameriere al Grand Hotel, gestito dallo zio Eliseo. Lo zio vedendolo parecchio imbranato, mentre è alle prese con piatti e bicchieri, gli spiega la differenza tra essere servi e essere servitori: «Guarda i girasoli: s’inchinano al sole, ma se vedi uno che è inchinato un po’ troppo significa che è morto. Tu stai servendo, però non sei un servo. Servire è l’arte suprema. Dio è il primo servitore; Lui serve gli uomini, ma non è servo degli uomini» (La vita è bella). Essere servitori significa esserci per gli altri, donare la propria presenza al prossimo, sentirsi responsabili per e dell’altro. Se Dio è nostro servitore, chi sarà nostro padrone? Non abbiamo nessun padrone, ma siamo chiamati a essere servitori, a prendere a cuore e nel cuore gli altri. Il Signore ci ha dato l’esempio, iniziamo a imitarlo.


Ventinovesima Domenica per Annum

«Tra voi non è così» (Mc 10,44).

Giacomo e Giovanni si dimostrano oggi parecchio ambiziosi e si propongono a Gesù come collaboratori nella gestione del potere che, secondo loro, certamente presto avrà. Il Signore non condanna il loro desiderio di grandezza, ma gli propone un’altra via per raggiungerla. All’immagine di un capo che comanda oppone quella di un capo che serve, all’idea di un Dio da temere quella di un Dio che si abbassa ai nostri piedi. Se Dio è nostro servitore, chi sarà nostro padrone? Non abbiamo padroni,ma siamo chiamati a farci servitori, perché Cristo ci ha dato l’esempio. Buona domenica.


Va’, metti tutto su Ebay, poi vieni e seguimi!

XXVIII per Annum – 10 Ottobre ‘21

Prima lettura – Sap 7,7-11: Al confronto della sapienza stimai un nulla la ricchezza. Dal Salmo 89: Donaci, o Dio, la sapienza del cuore. Seconda lettura – Eb 4,12-13: La Parola di Dio scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Vangelo – Mc 10,17-30: Vendi quello che hai, poi vieni e seguimi.

Facciamo il riassunto della puntata precedente. Avevamo lasciato Gesù «in mano» ai farisei che volevano tastare la sua ortodossia alla Legge di Mosè a proposito di Matrimonio e Divorzio, volevano cioè testare se era ferrato sul Diritto matrimoniale. Gesù ha quindi dovuto sostenere un esame di Diritto matrimoniale riuscendo a prendere un bel 30 e lode! Lo ritroviamo oggi che ha ripreso il cammino ed è diretto, insieme ai suoi discepoli, verso la Giudea. Mentre cammina, un uomo, (un tale, dice Marco, uno che non ha nome, perché chi legge o ascolta il brano possa mettere il proprio nome nello spazio vuoto) gli corre incontro e gli si inginocchia davanti, facendogli una domanda a bruciapelo: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?» (Mc 10,17). Siamo davanti a un uomo che giunge con voce ansimante, che ha corso per la paura di vedersi scappare Gesù da sotto il naso. È uno mosso dal desiderio di senso, che si interroga sullo scopo principale della sua vita, uno che ha una sana inquietudine, uno che vuole di più, uno che è a pieno titolo un cercatore di Dio. Gesù prima di rispondere ci tiene a puntualizzare che l’aggettivo «buono» è da riservare solo a Dio. Quindi suggerisce a questo tale di interrogarsi sulla volontà di Dio e lo rimanda ai Comandamenti. Sorprendentemente però Gesù non cita i Comandamenti che riguardano Dio, ma solo quelli che si riferiscono alle relazioni interpersonali. Perché questo? Forse perché ha già fatto un riferimento a Dio e alla sua bontà, realizzando in quel modo un esplicito richiamo ai Comandamenti che lo riguardano. Il Signore ci dice così che non basta vivere eticamente bene, non «sgarrando» niente del Decalogo, ma è necessario orientarsi, prima e sempre, alla fonte da cui tutto si origina, cioè Dio. La risposta di quell’uomo è pronta «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza» (Mc 10,20). E Gesù replica con un gesto («fissò lo sguardo su di lui, lo amò») e con una parola («Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!»). Il Maestro è colpito dalla sincerità di quel tale. Con uno sguardo pieno d’amore, non gli dice che finora ha sbagliato tutto, anzi… Vedendolo ben disposto, gli propone un salto di qualità. Lo invita a lasciare tutto per seguirlo. «Seguimi! Vieni sui miei passi. Sta al mio fianco. Rimani nel mio amore». «Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni» (Mc 10,22). Poverino, quel tale, si sarà sentito crollare il mondo addosso. Il suo volto si oscura come il cielo prima di un temporale. Le parole che avrebbero dovuto riempirlo di gioia gli lasciano nell’anima una gran tristezza. Certo quella di Gesù è una proposta davvero affascinante, non c’è dubbio… Ma il Maestro non può mettere quella condizione di dover vendere tutto, di dover mettere tutto su Ebay. Lui aveva tanto, aveva tutto. Credeva che Dio, come ogni buon dio che si rispetti, concedesse la vita eterna in cambio «solo» di un adempimento legalistico di prestazioni religiose. E invece… Alla fine pur non accorgendosi di essere posseduto da ciò che possiede, non trova il coraggio di abbracciare il progetto di vita evangelico. Ha paura di lasciare un nulla con le sue sicurezze, per un tutto che reputa intriso di incertezza. Quell’uomo rinuncia perchè non gli riesce proprio di convertire la sua idea di Dio. Lui ha bisogno di un Dio che gli dia cose da fare, cartellini da timbrare, impegni da onorare. Non sa proprio che farsene di un Dio che si propone e che non si impone, di un Dio che non pretende, ma dona. Ci somiglia molto quel tale… Anche noi ci sforziamo di vivere i Comandamenti di Dio e in moltissimi casi ci riusciamo pure abbastanza bene. Ma chiediamoci se non lo facciamo solo per ottenere qualcosa. Chiediamoci se non abbiamo trasformato la nostra vita in un universo carcerario dove quasi tutto è proibito e il resto è obbligatorio. «Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: “Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!”. I discepoli erano sconcertati dalle sue parole» (Mc 10,23s). Tranquilli, il problema non è avere ricchezze, possedere beni, ma quanto il cuore è attaccato, asservito, a quelle ricchezze. Non scivoliamo nel moralismo criticando e schifando i soldi degli altri e invitando alla generosità, sempre gli altri. A questo punto interviene il solito Pietro… «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito» (Mc 10,28). Il discepolo intuisce che nessun uomo si salva da solo e chiede garanzie, chiede se sono in regola e cosa otterranno per il solo fatto di avere seguito tutte le istruzioni. E Gesù rassicura tutti: «Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà» (Mc 10,29s). Lasciamo tutto per seguire il Signore. Non permettiamo che quello che abbiamo, anche il poco che abbiamo, si trasformi in zavorra. Non ci succeda di correre verso Gesù, facendo genuflessioni, inchini, capriole e fingendo di cercare la sua volontà… Mentre poi il legame con le cose ci porta da tutt’altra parte. Le ricchezze non sono destinate ad essere possedute, ma usate secondo necessità. Se riponiamo le nostre sicurezze nelle ricchezze di questo mondo non raggiungeremo il senso pieno della vita e della gioia. Solo Gesù può garantire un’esistenza felice, ma per una via diversa rispetto a quella che si aspettava quel tale. Una via non fatta di verità accademiche o nozioni da mandare a memoria, ma una via di relazione, una proposta di relazione con lui e, attraverso di lui, con il Padre. Certo è una proposta che chiede molto, che mette a disagio ed è, a tratti, veramente esigente, ma accettandola e perseverando in essa ci fa diventare più ricchi e realizzati.


Ventottesima Domenica per Annum

«Cosa devo fare per avere la vita eterna» (Mc 10,17).

Il Vangelo ci racconta oggi di un tale che, alla ricerca del senso della sua esistenza, chiede a Gesù la ricetta della felicità. Il Maestro è ben disposto nei suoi confronti e gli propone di fare il salto di qualità, lasciando tutto e mettendosi alla sua sequela. Ma quel tale finisce per perdere l’occasione della sua vita, preferendo i suoi beni a Cristo stesso. Anche a noi Gesù propone di fare il salto di qualità: lasciamo tutto per seguirlo. Non permettiamo che quello che abbiamo,anche se è poco si trasformi in zavorra. Buona domenica.


Ventisettesima Domenica per Annum

«Per la durezza del vostro cuore» (Mc 10,5).

Oggi i farisei interrogano Gesù a proposito di divorzio. Vogliono capire da che parte si schiera: è pro o contro? Di dx, sx o centro? Il Maestro dice che non gli importa né la dx, né la sx, né il centro, ma “solo” il dentro dell’uomo. E richiama tutti al progetto di Dio che non è quello di barcamenarsi tra il lecito e l’illecito, ma quello di amare di un Amore che ama nonostante. Buona domenica.


Il divorzio secondo Gesù

XXVII per Annum – 3 Ottobre 2021

Prima lettura – Gen 2,18-24: I due saranno una sola carne. Dal Salmo 127: Ci benedica il Signore, fonte della vita. Seconda lettura – Eb 2,9-11: Colui che ci santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine. Vangelo – Mc 10,2-16: L’uomo non separi ciò che Dio ha congiunto.

Gesù ha appena lasciato la Galilea, diretto, insieme ai suoi discepoli, verso la Giudea. La presenza del Maestro di Nazareth suscita entusiasmo in qualsiasi posto arrivi e fa accorrere un sacco di gente per ascoltare i suoi insegnamenti. Tra gli uditori, spacciandosi chiaramente per fan sfegatati, si infiltrano anche i farisei, che ancora una volta vogliono fargli delle domande trabocchetto nel tentativo di coglierlo in fallo, per trovare incongruenze nella sua predicazione, nella sua pretesa di essere l’inviato di Dio. La domanda questa volta riguarda il ripudio, il divorzio. Una materia veramente scottante. Si tratta di una questione lungamente dibattuta all’epoca (e non solo!). Le scuola rabbiniche, unanimi sulla possibilità di farlo, non erano unanimi nello stabilire le condizioni per divorziare. Il brano di Deuteronomio (Dt 24,1-4) su cui poggiava la pratica del divorzio non era interpretato da tutti allo stesso modo. Per alcuni rabbini l’unica causa di divorzio era l’adulterio. Per altri bastava che la moglie facesse bruciare il cibo. Immaginate la scena oggi: il marito che divorzia dalla moglie perché invece di scolare la pasta al dente, la scola scotta e appiccicaticcia! I farisei non stanno chiedendo a Gesù il suo parere personale, vogliono soltanto saggiare la sua ortodossia alla Legge e a Mosè. Vogliono obbligarlo a schierarsi tra i libertini o tra i rigidi osservanti. Vogliono capire se Gesù è di destra, di sinistra o di centro. Ma il Maestro dimostra ancora una volta di interessarsi «semplicemente» al dentro dell’uomo! Il Signore come al solito non si perde in discussioni tendenziose, sposta la questione dall’aspetto giuridico al livello spirituale e teologico, limitandosi a fare riferimento alla Sacra Scrittura e a fissare l’attenzione sulla norma fondamentale che sta alla radice dell’incontro Uomo|Donna, cioè l’amore. «”Che cosa vi ha ordinato Mosè?”. Dissero: “Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla”. Gesù disse loro: “Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola”» (Mc 10,3-8). Gesù dice chiaramente che quanto stabilito da Mosè è una disposizione non voluta, ma solo tollerata da Dio, a causa della durezza del cuore dell’uomo della sua immaturità. Il Maestro non critica Mosè, ma il popolo ebraico affetto da sclerocardia, di cuore indurito e suggerisce di non accontentarsi di un’interpretazione letterale della Legge, ma di cercare di risalire alla volontà di Dio. Non si può stare sempre dietro al lecito e all’illecito, trasformando la vita una continua esecuzione di ordini. L’intenzione originaria di Dio era ben altra. Per JHWH l’indissolubilità del matrimonio è il segno di una realtà più alta: l’Alleanza, la Berit, tra Dio e il suo popolo. In altri termini così come Dio non divorzia da Israele (e dalla Chiesa) nonostante le infedeltà, allo stesso modo l’uomo e la donna che vivono il matrimonio sono chiamati alla faticosa esperienza della perseveranza. Gesù sta dicendo che nel matrimonio tra un uomo e una donna non un semplice contratto sociale (che si può contrarre e anche sciogliere), ma una manifestazione di Dio stesso. E quando si dovesse verificare la rottura e la separazione tra persone che si vogliono bene, c’è la sconfitta di Dio. Gesù sta dicendo, quindi, che il vero peccato non è trasgredire una norma, ma infrangere un sogno, il sogno di Dio, fatto di un uomo unito indissolubilmente alla sua donna. Il sogno di Dio raccontato nella prima lettura (Gen 2,18-24). Adamo aveva tutto, ma era solo. Una solitudine, la sua, che neanche la presenza di Dio riesce a colmare. Allora JHWH decide di donargli la relazione. Fa calare un sonno profondo sull’uomo (una specie di anestesia totale!) e quando questi si sveglia vede una «tu» davanti a sé. Cosa significa tutto questo? Semplicemente che l’origine dell’altro/a è per noi sconosciuta, ma questo non deve ingenerare paure e sospetti. Il mistero dell’altro/a è una sfida a porsi in ascolto accogliente. E la storia della costola? Significa che l’altro/a nasce solo se c’è disponibilità a «perdere», a ridimensionarsi, a farsi da parte. È normale innamorarsi, avviene da che mondo e mondo (Cfr Gen 2,23: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne» è il primo complimento che un innamorato fa alla sua donna). È normale pure scegliere di vivere insieme. Più impegnativo è amare, amarsi come Gesù ha ama. Purtroppo quando si dice «amore» ci sono, nella nostra società, poche idee e parecchio confuse. Credo che possiamo individuare almeno tre tipi di amore: l’amore se, l’amore perché e l’amore nonostante. L’amore se è quello a condizione: «Ti amo se tu sei, se tu fai, se tu dici!». È una forma non troppo celata di egoismo che finisce per strumentalizzare l’altro. Poi c’è l’amore perché che è l’amore umano: «Ti amo perché sei buono/a, bello/a, hai le mie stesse idee, sogni, progetti». È un amore valido, ma rischia di svanire, perché come dice il proverbio: «Cu s’innamura ri capiddi e ri rienti, un s’innamura ri nienti – Chi si innamora dei capelli e dei denti non si innamora di niente». Infine il terzo tipo di amore è l’amore nonostante, che è per intenderci l’amore di Dio, che ci ama nonostante, nonostante i rifiuti, le indifferenze, i peccati… Tutti probabilmente ci stiamo chiedendo se è possibile concepire un percorso fatto da due persone che duri tutta la vita… La relazione interpersonale è la cosa più difficile per l’uomo che è comunque animale di relazione. Resta sempre attuale il paradosso dei Porcospini pensato da Arthur Schopenhauer. Probabilmente per il mondo non è proprio possibile (L’amore è eterno… fin che dura!), ma per chi crede in Cristo, per chi vive la vita come vocazione e non come dannazione, per chi affronta il cammino dei suoi giorni con atteggiamento di fede, abbandonando ogni garanzia di sicurezza, certamente sì!