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Non accontentiamoci della bigiotteria: non tutto quello che luccica è oro!

XVII per Annum – 30 luglio 2023

Prima lettura – 1 Re 3,5.7–12: Hai domandato per te la sapienza. Dal Salmo 118: Quanto amo la tua legge, Signore! Seconda lettura – Rm 8,28–30: Ci ha predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo. Vangelo – Mt 13,44–52: Vende tutti i suoi averi e compra quel campo.

Si conclude oggi il discorso in parabole di Gesù iniziato due domeniche fa. A «ospitare» questo simpatico discorso di Gesù è, ormai lo sappiamo, il capitolo 13 del Vangelo di Matteo. Si tratta di pagine «adatte» a questo tempo di estate e di vacanze, perché non contengono insegnamenti fatti con paroloni difficili o concetti complicati, ma brevi storie che ci aiutano a comprendere, con facilità, idee assai complesse.

«Il Regno dei cieli è simile…» (Mt 13, 44).

Gesù continua il suo discorso e continua a prendere delle immagini della vita quotidiana per «spiegare» come è il Regno di Dio.Le immagini di oggi sono: un tesoro nascosto in un campo, una perla preziosa e una rete gettata in mare che pesca ogni sorta di pesce. Ma andiamo con ordine.

«Il Regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo… a una perla di grande valore » (Cfr. Mt 13, 44-45).

Un uomo, un contadino zappatore, trova un tesoro interrato in un campo (non era raro trovarne a quei tempi, perché data l’insicurezza a causa delle continue guerre, si preferiva salvaguardare i propri beni nascondendoli), ricopre il tutto e compra il campo (La legislazione giudaica prevedeva che possedeva un terreno era anche proprietario di quanto c’era in esso). Un grande commerciante proprietario di navi mercantili (emporos, in greco) collezionista di perle, l’oggetto più prezioso nell’antichità, trova una perla straordinaria, vende tutte quelle che aveva, e la compra. Due uomini diversi, uno non ricco, l’altro molto ricco, ma entrambi vendono tutto quello cha possiedono per potersi impadronire rispettivamente del tesoro e della perla. Entrambi trovano qualcosa dal valore assoluto, di fronte al quale tutto il resto impallidisce. Sono «vittime» di un’attrazione fatale, non stanno più fermi, non si danno pace, si distaccano dalla comoda tranquillità, dal «chi si accontenta, gode» e rischiano il tutto per tutto. L’idea di fondo per entrambi gli uomini è la stessa: la vita è una ricerca, una caccia al tesoro, e Dio solo conosce ciò che può riempire i nostri cuori. Solo Dio sa cosa ci rende profondamente felici, autenticamente felici. E invece, noi, diamo retta ai tanti che ci vogliono vendere le istruzioni per la felicità, diamo retta ai venditori di fumo, diamo retta ai «tuttologi» che ci spiegano che, per essere felici, abbiamo bisogno di una macchina più grande, di un corpo più snello, di uno stipendio milionario. Ma immedesimiamoci nelle storie appena ascoltate. I due uomini trovato il tesoro e la perla corrono a vendere e a svendere tutto quello che hanno. La gente avrà pensato che quei due tizi sono diventati matti: precipitarsi così, vendere tutti i propri averi, rischiare di rovinarsi, per acquistare un campo di erba e ortiche, o una perla che è pur sempre una perla. Che senso ha? Ma i due uomini non danno retta alle parole della gente, ai consigli di chi gli dice di lasciar perdere, continuano a sorridere con la serenità di chi sa il fatto proprio: l’uno sa che in quel campo c’è ben di più di quanto appare, l’altro sa che quella perla non è solo una perla! I due uomini vendono tutto perché hanno scoperto il di più. Vendono tutto, ma per guadagnare il tutto. Lasciano il molto per avere il tutto. Per loro è quasi automatico «sbarazzarsi» di tutto, per loro è normale ritenere che tutto quello che fino a un momento prima era fondamentale, ora diventa spazzatura, «munnizza».E noi cristiani, sappiamo fare scelte tanto radicali? Siamo capaci di sbarazzarci di tutte le inutilità che abbiamo trasformato in cose fondamentali? Purtroppo ho la sensazione che piuttosto che fare scelte radicali e smaltire tutti i nostri rifiuti, preferiamo rimanere dei grandi incompetenti per quanto riguarda il regno di lassù, mentre accumuliamo competenze su competenze, lauree su lauree e specializzazioni su specializzazioni per tutto ciò che riguarda il regno di quaggiù!Se abbiamo incontrato Cristo (e spero che questo sia accaduto…) è normale ritenere che solo lui è fondamentale e che tutto il resto è solo contorno.

Ma continuiamo…

«Il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci» (Mt 13,47).

Come accanto al grano cresce la zizzania (cf. Mt 13,24-30), così vengono pescati pesci buoni e pesci cattivi. Nel lago di Galilea si pescava a strascico e quando poi la rete veniva tirata a riva c’erano tutti i tipi di pesce: i pesci buoni, quelli con le lische e le squame venivano raccolti nei canestri, gli altri, i molluschi (I molluschi e i pesci senza squame e lische erano ritenute, nell’ambiente palestinese contemporaneo a Gesù, pesci impuri, quindi incommestibili) e tutti i pesci senza lische e squame (in greco, marci), venivano gettati via. Si procedeva a una raccolta differenziata.

«Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni» (Mt 13,49).

Dovremmo essere in grado di diventare pesci con le lische e le squame, con una colonna vertebrale forte, per non correre il rischio di essere gettati nel fuoco perché pesci incommestibili, marci, in avanzato stato di putrefazione. Oggi più che mai siamo chiamati a riscoprirci cercatori, cercatori del tesoro, cercatori di Dio. Questo il modo migliore di trovare il senso della vita. Non accontentiamoci della bigiotteria: non tutto quello che luccica è oro!

Chiediamo al Signore, come ha fatto Salomone (cfr. I lettura) la saggezza del cuore, chiediamo gli «strumenti» per un corretto rapporto con Dio, chiediamogli ancora una volta di trasformarsi nel nostro tesoro e di renderci capaci di vendere tutto per avere il tutto.


Diciassettesima Domenica per Annum

«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto» (Mt 13,44).

Un uomo trova un tesoro nascosto in un campo e un altro una perla preziosa. Entrambi fanno qualcosa che agli occhi di tanti appare una pazzia: vendono tutto per comprare il campo e la perla. Vendono tutto, ma per guadagnare il tutto. Essere cristiani significa avere il coraggio di fare scelte radicali: se si è incontrato Cristo, diventa quasi automatico “sbarazzarsi” di tutto per sceglierlo con gioia, diventa normale ritenere che tutto quello che ritenevamo fondamentale, in confronto a Cristo, diventa solo “munnizza”.


Sedicesima Domenica per Annum

«Lasciate che zizzania e grano crescano insieme fino alla mietitura» (Mt 13,30).

Nel campo del mondo, trova posto il seme della Parola che Dio getta a piene mani. Ma semina anche il maligno, e semina la zizzania. Perché Dio non interviene a fermarlo? Perché non sradica la zizzania? «Tenete pazienza!», dice il Signore, «per non correre il rischio di strappare, nello slancio talebano, pure il grano buono». Lasciamo fare a Dio il suo mestiere, impariamo da Lui a essere «onnipazienti» e lavoriamo perché al tempo della mietitura «possiamo finire ammassati» nei granai del cielo! Buona domenica.


Attendere, prego!

XVI per Annum – 23 luglio 2023

Prima lettura – Sap 12,13.16–19: Dopo i peccati, tu concedi il pentimento. Dal Salmo 85:Tu sei buono, Signore, e perdoni. Seconda lettura – Rm 8,26–27: Lo Spirito intercede con gemiti inesprimibili. Vangelo – Mt 13,24-43: Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura.

La liturgia di questa XVI domenica per Annum ci fa meditare ancora sul capitolo XIII del Vangelo di Matteo, il capitolo del discorso in parabole. Il Signore usa un linguaggio semplice… Desidera che il suo messaggio non sia disperso in formulazioni incomprensibili e irraggiungibili. Non vuole che Dio finisca separato dalla realtà quotidiana degli uomini. Ritroviamo Gesù là dove lo abbiamo lasciato la scorsa settimana: seduto su una barca, ormeggiata nel lago di Genesaret. È un Vangelo estivo: spiaggia, lago (mare), barche… Sulla rive del lago si è radunata la gente, quella gente che sta cominciando a seguirlo con regolarità. Gesù è uno che sa parlare, è un piacere ascoltarlo. Diremmo noi «sapi n’cucchiari» due parole. E Gesù parla, continua la sua «predica».

«Il Regno dei cieli è simile…» (Mt 13, 24).

Gesù continua il suo discorso in parabole, continua a prendere delle immagini della vita quotidiana per «spiegare» come è il Regno di Dio. E attraverso le immagini di oggi (grano e zizzania, granellino di senapa e lievito nella pasta) ci da tre caratteristiche del Regno, mettendoci in guardia da alcune possibile tentazioni. Il Regno è una questione di pazienza («Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura», Mt 13, 24): attenti quindi alla tentazione di sentirsi comunità di eletti, di giusti e dividere il mondo tra buoni (noi!) e cattivi (sempre gli altri!). Il Regno è una questione di piccolezza («Il granellino di senapa è il più piccolo di tutti i semi…», cfr. Mt 13,32): attenti quindi alla tentazione della grandezza. Il Regno è, infine, una questione di nascondimento («Il lievito impastato con tre misure di farina», cfr.Mt 13, 34) : attenti quindi alla tentazione dello scoraggiamento.

«Spiegaci la parabola della zizzania nel campo» (Mt 13,36).

Ma soffermiamoci sulla parabola del grano e della zizzania. D’altronde è l’unica parabola della quale i discepoli chiedono spiegazioni, non perché non l’abbiano capita, ma perché l’hanno capita bene e non sono d’accordo. Innanzitutto è opportuno capire cosa sia la zizzania… È un’erba molto furba, appartiene alla famiglia delle graminacee (lolium temulentum) che si nasconde in mezzo al grano e sfugge all’occhio inesperto. È un pianta infestante che cresce a discapito del grano. La sua forma la fa’ somigliare allo stelo del frumento, ma i suoi grani sono tossici e hanno un effetto narcotizzante. La zizzania non è buona da mangiare né per l’uomo, né per gli animali e la sua sorte finale è il fuoco.

Ma la parabola del grano e della zizzania non è una lezione di agraria! Essa ci pone dinanzi ad alcuni interrogativi che da sempre, da che mondo è mondo, hanno attraversato l’umanità non facendole dormire sonni tranquilli: «Perché esiste il male? Perché Dio invece di intervenire sembra quasi dormire? Dove è la giustizia di Dio in un mondo in cui il male resta impunito?»di castighi a destra e a sinistra, raccomandandogli di passare oltre la nostra porta. Vorremmo un Dio più interventista, più capace, meno imbranato..

Alla fine quindi, alla domanda sul «perché nel mondo c’è il male?», la risposta di Gesù, la risposta della parabola, è che è necessario attendere, con pazienza, il momento della mietitura, il momento del giudizio finale, quando la zizzania, il male, verrà eliminata definitivamente. Là dove noi vediamo solo erbacce, erbacce da sradicare, il padrone fissa lo sguardo sul grano: il bene possibile è più importante del male presente.

«Verrà un giorno…» dice fra’ Cristoforo a don Rodrigo nel Sesto capitolo Dei Promessi Sposi . «Verrà un giorno…»dicono tutti i disgraziati e gli sconfitti della storia. «Verrà un giorno…»ci dice la parabola, un giorno in cui Dio scriverà, a suo modo e definitivamente, la parola fine alla storia del mondo. È «solo» questione di saper attendere. È «solo» questione di pazienza. È solo questione di far fare a Dio il suo mestiere. Dio non ha fretta. Dio attende. Dio è onnipaziente! Il Signore ci ripete la formula che a volte sentiamo nelle telefonate ai numeri verdi o di servizio di certi enti: «Attendere, prego!». Per Dio la storia non è il luogo del giudizio, ma il luogo della possibilità di convertirsi, prima che tutto diventi irreversibile. Per Dio la storia non è il luogo del giudizio, ma il luogo della possibilità di convertirsi, prima che tutto diventi irreversibile. «Vedrai, vedrai, vedrai che cambierà. Forse non sarà domani, ma un bel giorno cambierà!», cantava Luigi Tenco (Vedrai vedrai, 1965). Sapete, la pazienza richiama il dolore (il patire, da cui deriva la parola) e l’attesa. Pazientare è attendere con dolore, sapendo che il male avrà fine. Viviamo sulla nostra pelle la contraddizione del male che coabita col bene, anche nei nostri cuori, e il Signore ci chiede di lasciar fare a lui.

Nonostante Dio ci abbia salvati, stentiamo ancora ad impararlo e a vivere da salvati. Ancora ora, dopo che abbiamo incontrato il Signore, il nostro cuore è il campo in cui c’è seminato il buon grano, ma anche il campo in cui cresce la zizzania. Siamo costretti a fare i conti con le contraddizioni che abitano il nostro cuore. Ma non scordiamoci mai che Dio sa attendere, sa attendere il pentimento di noi suoi figli, sa aspettare i ritorni dei figli. La sua porta è e rimane aperta. Basta un nostro gesto e le dighe della sua misericordia si spalancano. Lasciamo fare a Dio il suo mestiere, impariamo da lui a essere «onnipazienti» e lavoriamo perché al tempo della mietitura possiamo finire anche noi ammassati nei granai del cielo!


Tutta fatica sprecata!

XV per Annum – 16 luglio 2023

Prima lettura – Is 55,10–11: La pioggia fa germogliare la terra. Dal Salmo 64:Tu visiti la terra, Signore, e benedici i suoi germogli. Seconda lettura – Rm 8,18–23: L’ardente aspettativa della creazione è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. Vangelo – Mt 13,1–23: Il seminatore uscì a seminare.

Gesù, uscito dalla casa di Cafarnao in cui era solito ritirarsi con i suoi discepoli, si reca presso il mare di Genesaret, dove lo raggiunge una folla numerosa. Decide di sedersi su una barca e da lì fa’ la sua «omelia» alle persone radunate sulla riva del lago. Gesù non fa discorsi lunghi e complicati ma si serve di brevi parabole, frutto della contemplazione del reale, del suo osservare il mondo attorno a sé.

«Ecco, il seminatore uscì a seminare» (Mt 13,3).

Ci immaginiamo il gesto ampio e solenne del seminatore, che non ha paura di gettare il seme con abbondanza. Sembra quasi un gesto sconsiderato. Invece è un gesto imbevuto di speranza: se non si semina, non nasce nulla. Si deve correre il rischio anche di seminare a vuoto, di spargere il seme in terreni non adatti, per sperare che il seme attecchisca da qualche parte. Non c’è parte di terra che non consideri degna di attenzione. Nessuna porzione di terra è scartata a priori. Al seminatore importa di più che il seme venga seminato, più del frutto che porterà. D’altronde, come sapere al tempo della semina, quali terreni fruttificheranno e quali no? Nessuno può anticipare il giudizio di Dio. Così è Dio: esagera. Non gli importa la stretta logica del guadagno, compie gesti insensati, getta con generosità la Parola. Dio è il grande ottimista della Storia, continua parlare anche quando la Parola cade nel vuoto.

«Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore» (Mt 13,18).

Gesù analizza, in disparte con i suoi discepoli i risultati della semina.

«Questo è il seme seminato lungo la strada» (Mt 13,19).

Il primo risultato è disastroso: il seminatore semina sulla strada e il seme non riesce neppure a sopravvivere, perché arrivano gli uccelli e la mangiano. Il Signore stesso ne dà l’interpretazione: gli uccelli sono il maligno che non vuole correre il rischio che la Parola buchi l’asfalto della nostra indifferenza e della nostra abitudine. Chi corre sempre è derubato di senso, derubato dalla fame di infinito. Chi è come la strada è impermeabile, non ne vuole sapere, si sente completo in sé, non ha bisogno di nessun seme e resterà nella sua aridità.

«Quello che è stato seminato nel terreno sassoso…» (Mt 13,20).

La seconda categoria di persone raggiunte dalla Parola sono gli entusiasti un po’ incostanti, persone «di un momento»come dice il testo greco, prive di radici, incapaci di fare fronte alla prova del tempo e alle tribolazioni che un ascolto autentico comporta. Sono quelli che, raggiunti dalla Parola, ne restano affascinati, soprattutto emotivamente. Magari è un’esperienza forte che li ha avvicinati: un pellegrinaggio, un ritiro, un gruppo, ma, appena fuori dal contesto, cominciano piano piano a lasciarsi riassorbire dalle preoccupazioni e, inesorabilmente, cadono nella dimenticanza. È buffo che siamo disposti ad ogni sacrificio per perdere qualche chilo, per sviluppare qualche muscolo, per assumere un aspetto più gradevole e non riusciamo, invece, a mettere un briciolo di costanza nella vita interiore per incontrare Dio. É vero che oggi vivere la fede in un ambiente ostile è decisamente difficile, come il seme che cade in mezzo alle pietre, per questo è sempre più necessario vivere la fede insieme, avere degli spazi, dei momenti per ristorarsi, per riappropriarsi della propria fede.

«Quello seminato tra i rovi…» (Mt 13,22).

La terza categoria è quella che, pur cresciuta, viene soffocata dalle spine. Chi, dopo aver accolto la Parola, averla maturata, averla accolta con gioia, incontra difficoltà, sofferenze, aridità e ne viene soffocato. Difficoltà sia a livello umano: una malattia, un lutto, che ci allontana definitivamente da Dio, che difficoltà di ordine spirituale: un’aridità prolungata, una fatica interiore…

«Quello seminato sul terreno buono…» (Mt 13,23).

Infine il seme cade su terra buona e produce frutto, in maniera diversa, rispettando la peculiarità di ciascuno, adattandosi alla vita interiore di ogni uomo. La Parola produce frutto, crea abbondanza, dona vita, ciò che pensavi essere arido diventa fecondo, ciò che non capivi, si illumina, la tristezza diviene conversione alla gioia.

I quattro terreni di cui parla Gesù sono tutti rappresentati, di volta in volta, nel nostro unico cuore, sono quattro possibili risposte alla Parola, sono quattro nostre possibili opzioni dinanzi alla Parola! O forse ognuno di noi è come un grande terreno fertile, dove crescono un po’ di cespugli spinosi e si accumulano un po’ di sassi se non lo curiamo bene. Un grande spazio di terra buona, dove passano anche un po’ di strade, che vanno tenute d’occhio, se no gli uccelli vanno a beccare! Ci sono giorni in cui ascoltiamo la Parola di Dio e la ricordiamo bene, la conserviamo nel cuore e riusciamo a viverla lungo la settimana. Ci sono volte in cui la Parola di Dio che ascoltiamo la domenica, ci vola via dalla testa prima ancora che la Messa finisca! Ma non siamo solo sassi o cespugli spinosi, credo che Dio ci ha fatti tutti come terreno buono! Siamo fatti proprio così, come un grande terreno ricco e buono, che per dare un buon raccolto deve essere curato, altrimenti si riempie di sassi, di cespugli spinosi e selvatici, e gli uccelli vengono a mangiare tutti i semi della Parola che ogni domenica riceviamo. Ogni domenica, quando ci prepariamo per venire a Messa, proviamo a pensare com’è il terreno del nostro cuore. Proviamo a chiederci se siamo pronti per ascoltare la Parola di Dio, se abbiamo voglia di accoglierla con amore o se ci sono pensieri, preoccupazioni, interessi, che sono in cima alle nostre attenzione e che potrebbero soffocare il seme del Vangelo. Se ci prepariamo così, saremo come il contadino che ara la terra, la innaffia, la cura con premura, e di certo non mancherà il frutto abbondante e prezioso al tempo del raccolto!

«Perché a loro parli con parabole?» (Mt 13,10).

Tra la parabola e la sua spiegazione è inserito il lungo dialogo fra Gesù e i discepoli. Il tema è costituito da una domanda precisa: la Parola di Dio non dovrebbe essere chiara per tutti? Come si spiega che la parola del Vangelo, che pretende essere di Dio, è in realtà rifiutata da molti? La risposta è davvero sorprendente: la Parola che il Vangelo offre, proprio perché di Dio, lascia all’uomo la libertà di aprirsi o di chiudersi. La Parola di Dio ha una sua debolezza, che in realtà è la sua grandezza: il rispetto della libertà dell’uomo. Proprio perché di Dio, la parola del Vangelo non costringe. Non riduce lo spazio della libertà, ma lo allarga. Il Signore semina nella nostra vita tracce della sua presenza. Semina ovunque, semina comunque, semina con generosità, con un pizzico di follia quasi. Ma il Signore semina rispettando la nostra libertà di accogliere o di rifiutare la sua Parola. Si propone Dio, non si impone. Rispetta i nostri tempi. L’uomo non è un burattino nelle sue mani. L’uomo è libero, sempre. Ma dinanzi alla Parola non si può restare neutrali e indifferenti, non si può restare in stand-by, bisogna scegliere, decidersi, giocarsi. E certamente i frutti saranno abbondanti.


Quindicesima Domenica per Annum

«Il seminatore uscì a seminare» (Mt 13,3).

Gesù racconta oggi una delle sue parabole più famose: la parabola del Seminatore sprecone che getta ovunque il suo seme, non facendo nessuna attenzione sui luoghi scelti per la semina.
Proprio come il seminatore, il Signore semina la sua Parola nella nostra vita.
La semina ovunque, la semina comunque, la semina con generosità, con un pizzico di follia quasi.
Ma il Signore semina rispettando la nostra libertà di accogliere o di rifiutare la sua Parola.
Dio si propone, non si impone.
Rispetta i nostri tempi.
Non siamo burattini nelle sue mani, non siamo tante marionette attaccati a dei fili.
Siamo liberi, sempre.
Ma essere liberi non significa restare neutrali e indifferenti.
Non si può restare in stand-by, bisogna scegliere, decidersi, giocarsi.
E certamente i frutti ci saranno.


Gesù è meglio del Polase!

XIV per Annum – 9 Luglio 2023

Prima lettura – Zc 9,9-10: Ecco, a te viene il tuo re umile. Dal Salmo 144: Benedirò il tuo nome per sempre, Signore. Seconda lettura – Rm 8,9.11-13: Se mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. Vangelo – Mt 11,25-30: Io sono mite e umile di cuore.

Non nascondo un certo rispetto e timore dinanzi alla pagina del Vangelo che abbiamo appena ascoltato. Sinceramente vorrei stare in silenzio. Mi verrebbe di tacere, di non interferire. Metterei un bel cartello con la scritta: «Non disturbare, colloquio confidenziale in corso!». Sì, la pagina del Vangelo che abbiamo sentito, ci riporta un dialogo tra Gesù e il Padre, una conversazione amabile e confidenziale tra Padre e Figlio.

Ma qualcosa devo pur dirla… Comincio dal contestualizzare il colloquio… Per Gesù non è un buon momento. Dagli scribi è considerato un bestemmiatore (Mt 9,3); i farisei hanno iniziato una campagna denigratoria nei suoi confronti: non possono negare ciò che compie, allora lo accusano di stregoneria.

In particolare il colloquio che abbiamo ascoltato si svolge a pochi giorni dall’arresto di Giovanni il Battezzatore (Gv 3,19ss), arrestato perché ogni volta che incontrava Erode, non perdeva tempo a «rompergli le scatole» sulla sua moralità. Giovanni, dal carcere, assalito dal dubbio, fa chiedere a Gesù: «Sei tu quello che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3). Sempre in precedenza al colloquio di oggi, Gesù aveva notato tristemente l’incontentabilità della gente. Alle persone non andava bene Giovanni il Battezzatore perché troppo austero, adesso non accettano che il Rabbi di Nazareth mangi e beva e sia «amico dei pubblicani e dei peccatori» (Mt 11,19). Infine il Signore aveva inveito («Con tutto quello che avete avuto la fortuna di vedere come fate a non credere?») contro le città della Galilea dove aveva annunciato il Vangelo e operato miracoli (Corazin, Betsàida e Cafarnao) e che non solo non si erano convertite, ma non apparivano neanche minimamente toccate dal suo insegnamento(Cfr. Mt 11,20-24). Questi i fatti che precedono il dialogo tra Padre e Figlio di oggi. Gesù dovrebbe essere amareggiato, in preda al pessimismo (Il suo Vangelo non coinvolge le folle… La sua Chiesa è vuota… Tanti fallimenti…) e invece esplode in un’espressione di gioia: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25). Da una situazione di delusione e di scoraggiamento, lui fa scaturire un inno alla vita e si lascia stupire da ciò che Dio padre fa. In altri termini Gesù sta dicendo «Ti faccio i miei complimenti, Papà, perché hai scelto i piccoli, quelli che sanno stupirsi davanti alla tua tenerezza!». Adesso ci tocca capire due cose: chi sono i piccoli e, soprattutto, se nelle parole di Gesù c’è un elogio dell’ignoranza.

«Le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25).

Chi sono i piccoli? I piccoli sono i neonati che riescono a vivere solo se qualcuno si prende cura di loro; sono coloro che sanno e accettano che c’è qualcuno a cui affidarsi. I piccoli sono i «precari», coloro che vivono perché si affidano a un altro, perché dipendono da un altro, perché pregano un altro (Una stessa etimologia accomuna le parole latine prex, preghiera e precarius, precario)… I piccoli sono quelli che danno spazio a Dio di manifestarsi nel modo inaspettato che lui ha…

«Hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti» (Mt 11,25).

Detta in questi termini sembra che il Signore prende posizione contro il sapere, contro la cultura. In verità non è così… Gesù era sempre stato attento non a coloro che sono innamorati di se stessi, della propria intelligenza, gli autoreferenziali, ma alla gente comune, alla gente semplice. Gesù fa’ allora un elogio dell’ignoranza? No, per nulla, Gesù sta dicendo che l’abisso, la profondità di Dio, del suo amore, può conoscerlo solo chi non pensa di non avere più nulla da imparare. Gesù sta dicendo che può conoscere Dio solo chi ha lo stupore dei bambini (Vi ricordate la canzone di Povia «Quando i bambini fanno ooh»?); solo chi ha la curiosità disarmante dei bambini (i mille «perché» dei bambini…); solo chi ha la semplicità dei bambini (dategli un pallone e una strada diventa il Maracanà di Rio de Janeiro); solo chi ha la faccia tosta dei bambini. Il Signore sta dicendo che possiamo incontrare Dio, che possiamo conoscere Dio e le sue cose, ogni volta che ci riconosciamo umili, ogni volta che ci riscopriamo precari, ogni volta che ci rendiamo conto (e lo accettiamo…) che non possiamo fare a meno di Lui.

«Voi tutti che siete stanchi e oppressi» (Mt 11,28).

Chi sono gli stanchi e gli oppressi? Gesù certamente si rivolge a coloro che lo stanno ascoltando e che sono gravati dalle leggi e dalle dottrine. I rabbini avevano trasformato la Torah in un giogo (l’attrezzo usato per attaccare gli animali all’aratro) divenuto progressivamente gravoso. Ma è bello pensare che l’invito sia rivolto anche a noi, a tutti quelli che viviamo una vita difficile e penosa.

«Io vi darò ristoro» (Mt 11,28).

Letteralmente «Vi farò riprendere fiato. Accogliete me e vi darò fiato». Gesù ci propone il Polase, l’MGKVis, il Gatorade, il Poverade. Ci propone qualcosa che può tirarci su. Non sono gli psicofarmaci a cui molti ricorrono che ristorano dalle pesantezze esistenziali. Non sono i tanti guru e pseudo profeti moderni che danno sicurezza al futuro. Non è il denaro, il successo, il prestigio che riempiono i vuoti interiori o le paure del domani. Ma è Cristo che da senso ai nostri giorni. Con queste semplice parole il Signore ci vuole dire: «Quando non ce la fai più, io ci sono! Quando ti sembra che tutto crolli, io non cedo! Quando sei disperato, io sono il tuo futuro! Quando ti sembra che non ci sia un cane a capirti, passa da me e vedrai che io ci sono!».

«Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,30).

«Giogo dolce», zygòs chrestòs in greco. Dovrebbe tradursi come «legame indispensabile», Gesù sta dicendo che legandosi a lui, si otterrà un legame profondo e liberante. Cristo non è una dottrina da accettare, ma una persona che va accolta.

A conclusione mi viene in mente una storiella della tradizione dei Chassidim, i pii israeliti (Avete presenti quelli con la barba lunga e i boccoli?)… «Un giovane discepolo si avvici­na una mattina al suo vecchio maestro e gli dice: “Come mai, nei tem­pi antichi, Dio appariva spesso ai nostri padri, ad Abramo, ad Isac­co, a Giacobbe, a Mosè e a tanti altri? Oggi, invece, nessuno lo vede più”. Il vecchio rabbino rifletté a lungo, poi rispose: “Perché noi, non sappiamo più chinarci abba­stanza in basso”». La storiella ha due significati… Forse il rabbino in­tendeva dire che non possiamo vedere Dio perché non vogliamo più inchinarci davanti alla sua gloria e alla sua maestà, cioè manchiamo dell’umiltà necessaria. O forse il rabbino voleva dire che Dio non si deve cercare nelle cose alte, nelle esperienze sublimi e straordinarie, ma nella semplicità delle cose «terra terra», nelle cose quotidiane. Cioè mentre noi guardiamo troppo in alto, Dio si rivela «in basso». Entrambe le ipotesi di lettura fanno al caso nostro. Stiamo attenti a non diventare professori delle regole e maestri nel trovare i peccati altrui. Attenti a non restare «analfabeti del cuore», ignoranti nell’alfabeto dell’amore. Dio non è un concetto, non è una regola, è sempre diverso da come lo vorremmo. Ma stiamo certi che non è un padre severo, ma una madre che ci accoglie sulle sue ginocchia, per parlarci cuore a cuore, per consolarci quando siamo in preda alla paura di non farcela, disposto a stringerci in un abbraccio di misericordia. È un Dio che per «svelare le sue carte», per proporre di essere figli nel suo Figlio, gioca a nascondino coi dotti, ma si svela ai piccoli. Abbiamo ancora un po’ di strada da fare! Dobbiamo convertire il nostro cuore, dobbiamo fargli un bel lifting, per aprirlo allo stupore di un Amore senza misura.


Quattordicesima Domenica per Annum

«Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28).

Letteralmente il Signore dice: «Venite a me e vi farò riprendere fiato. Accogliete me e vi darò fiato». Più che parole di Gesù sembrano le parole della pubblicità del Polase o del Poverade. E invece è proprio il Signore che ci propone qualcosa che può tirarci su. Non sono i tanti pseudomaestri che danno sicurezza al futuro. Non è il denaro, il successo, il prestigio che riempiono i vuoti interiori o le paure del domani. Ma è Cristo che da senso ai nostri giorni. È lui che ci rassicura: «Quando non ce la fai più, io ci sono! Quando ti sembra che tutto crolli, io non cedo! Quando sei disperato, io sono il tuo futuro! Quando ti sembra che non ci sia un cane a capirti, passa da me e vedrai che io ci sono!». Buona domenica.


Tredicesima Domenica per Annum

«Chi ama padre o madre più di me non è degno di me» (Mt 10,37).

Il Vangelo di oggi è molto breve, ma parecchio pungente e provocatorio
Gesù sembra accampare pretese inaudite e inaccettabili: andare contro le leggi del cuore, svalutando l’amore verso genitori e familiari, a vantaggio di un amore smisurato verso il Maestro.
In realtà, il Signore non sta svalutando nulla, né si sta mettendo in competizione con l’amore verso i familiari!
Con la sua affermazione Gesù immagina che la vita di ciascuno possa avere come presupposto un Amore che sia misura e bussola di tutto il resto, relazioni incluse.
Amare Dio non significa sacrificare ogni altra forma d’amore, ma significa avere delle fondamenta su cui costruire una vita che vada al di là della vita stessa.