Archivi del mese: ottobre 2022

Il riciclo dei peccatori… Una specialità di Gesù!

XXXI per Annum – 30 Ottobre 2022

Prima lettura – Sap 11,22-12,2 – Hai compassione di tutti, perché ami tutte le cose che esistono. Dal Salmo 144: Benedirò il tuo nome per sempre. Seconda lettura – 2 Ts 1,11-2,2 – Sia glorificato il nome di Cristo in voi, e voi in lui. Vangelo – Lc 19,1-10 – Il Figlio dell’uomo era venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto.

Gesù prosegue il suo viaggio verso Gerusalemme e ormai è vicinissimo alla città. Nel suo viaggio di avvicinamento giunge oggi a Gerico. Gerico è, dicono gli archeologi, il centro abitato più antico del mondo e i primi segni della presenza umana risalgono al 10.000 anni prima di Cristo. Al tempo di Gesù è un importante centro doganale. Non è la prima volta che Gesù si reca a Gerico, ma questa volta è accolto in maniera straordinaria, tanta folla lo attende. Perché questo entusiasmo? Perché mentre stava per entrare in città, alle porte di essa, ha guarito un cieco. In breve tempo la notizia ha fatto il giro del paese (in Boccadirosa De Andrè canta: «Una notizia un po’ originale non ha bisogno di alcun giornale, come una freccia dall’arco scocca, corre veloce di bocca in bocca») e adesso tutti vogliono conoscere il miracle maker, il fattore di miracoli. Tra i tanti curiosi c’è anche un certo Zaccheo. È un uomo parecchio famoso a Gerico e altrettanto ricco, ma, dato il mestiere che fa, non riscuote grandi simpatie. È il capo dei pubblicani. I pubblicani (se vi ricordate, ne abbiamo incontrato uno nel Vangelo della scorsa domenica…) erano esattori delle tasse, erano degli uomini che avevano accettato di lavorare per conto degli invasori romani, e proprio per questo considerati imbroglioni e traditori. I pubblicani vincevano l’appalto per la riscossione dei tributi ai romani e applicavano alle tasse dei «ritocchi» per guadagnare a spese dei propri connazionali. Erano dei ladri, a dire di tutti, perché da che mondo è mondo «cu mania un pinia – chi maneggia denaro, certamente avrà i suoi guadagni». «Zaccheo cercava di vedere chi era Gesù» (Lc 19,3) Zaccheo ha sentito parlare del Maestro di Nazareth. Ne ha sentite tante su di lui. Pare uno in gamba e Zaccheo vuole vederlo, ma senza farsi vedere. In lui c’è una certa inquietudine, una insoddisfazione e magari quel nazareno può tornargli utile. Il denaro non gli ha procurato pienezza di senso. Ma Zaccheo ha un handicap è micros, basso e visto che la folla è veramente tanta, l’unico modo per vedere Gesù è salire da qualche parte. «(Zaccheo) Corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomoro, perché doveva passare di là» (Lc 19,4). Zaccheo non si vergogna di fare un gesto che potrebbe renderlo ridicolo agli occhi dei suoi concittadini. «Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”» (Lc 19,5). Sorpresa delle sorprese mentre Zaccheo cerca di vedere Gesù, scopriamo che è Gesù che cerca di vederlo. L’amore di Dio precede la nostra conversione. Dio non ci ama poiché siamo buoni, ma amandoci ci rende buoni. Immagino quali e quante domande abbiano invaso in pochi secondi la mente di Zaccheo: «Come fa a conoscermi? Chi gli ha detto il mio nome? Chi è quest’uomo? Ma si rende conto che venendo a casa mia rischia di fare una figuraccia colossale, dato che sono odiato dai miei concittadini da 0 a 99 anni?». «Scendi subito» (Lc 19,5). Gesù dice a Zaccheo che è troppo cresciuto, almeno in età, per mettersi a giocare a nascondino. Il Signore, per fortuna, non si lascia impressionare dal nostro passato, poco edificante, ma vede in anticipo, quale meraviglia possiamo diventare. Nei Promessi Sposi, Manzoni fa dire al cardinal Borromeo, rivolto all’Innominato: «Cosa può fare Dio di voi? Meraviglie può fare?» (Alessandro Manzoni, Promessi Sposi). «Oggi devo fermarmi a casa tua» (Lc 19,5). Gesù non ha parole di condanna o di rimprovero per Zaccheo. Non gli dice «Mascalzone che non sei altro, appena scinni ti abballo supra a panza», ma si auto invita a pranzo a casa di Zaccheo. Poverina la moglie di Zaccheo che ha dovuto organizzare un pranzo in quattro e quattr’otto, e senza l’aiuto di «Quattro salti in padella»! «Tutti mormoravano: “È entrato in casa di un peccatore”». (Lc 19,7). Zaccheo sa bene che Gesù riceverà tante critiche per essersi auto invitato in casa di un pubblico peccatore come lui, ma questa è la prova che Gesù fa sul serio. È proprio questo «rimetterci» per lui, che converte Zaccheo. Ma il «colpo di grazia» per Zaccheo è incontrare un uomo, un Dio, che non fa prediche, che non condanna, ma uno che si fa amico. «Tutti mormoravano». (Lc 19,7). Mi diverte vedere come la stessa gente che acclamava, che applaudiva, che faceva ressa per ascoltarlo o solo guardarlo, ha già cambiato atteggiamento e ora lo critica a tutto spiano, lo disapprova. Non ci stupisca il repentino cambio di umore della folla, anche noi, finiamo spesso per brontolare, per criticare, per mormorare nei confronti di un Dio che, a nostro «modesto» avviso, non sa proprio fare il suo mestiere. Gli abitanti di Gerico sono stupefatti: «Come può colui che si pensi possa essere l’inviato di Dio, profanare la santità del Signore entrando in casa di un peccatore?». «Zaccheo, alzatosi, disse: “Io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto”» (Lc 19,8). Zaccheo fa un proclama che lo porterà alla rovina, al fallimento, ma che importa? Adesso è salvo! «Ci sono cose che nella vita non puoi comprare… Per tutto il resto c’è Mastercard!». «Oggi per questa casa è venuta la salvezza» (Lc 19,9). Gesù, lo abbiamo detto, sa vedere un uomo, dove gli altri vedono un peccatore. Il Signore è uno che si è inventato il riciclo già da diversi millenni… Da un uomo da buttare, da un peccatore, riesce a tirar fuori un uomo salvato. Sembra lo spot del Consorzio CoRePla: «La plastica? Troppo preziosa per diventare un rifiuto!». Gesù sembra dire: «Un peccatore? Un uomo troppo prezioso per finire perso per sempre!». E noi? Abbiamo il desiderio di vedere Gesù? Sappiamo essere come Zaccheo, determinati contro tutto e tutti, pur di vedere Gesù? Sappiamo trovare il nostro sicomoro? Ma soprattutto, sappiamo capire, quando è il momento di scendere dal sicomoro, dalle nostre convinzioni, dalle nostre certezze?


Trentunesima Domenica per Annum

«Scendi subito» (Lc 19,5).

Il vangelo di oggi racconta dell’incontro tra Gesù e Zaccheo un pubblicano, un collaborazionista dei romani, considerato da tutti un peccatore della peggior specie. Ma il Signore, da buon riciclatore, lì dove tutti vedono un uomo da buttare, vede un uomo salvare. E noi siamo pronti per essere riciclati? Buona domenica.


Trentesima Domenica per Annum

«O Dio, abbi pietà di me peccatore » (Lc 18,13).

Gesù ci racconta oggi una parabola per dirci quale è il giusto atteggiamento nella preghiera. Protagonisti del racconto un fariseo, che mostra a Dio la sua Deus card, dove pensa di aver accumulato con le sue “pie prestazioni”, i punti, per ottenere i premi e i vantaggi previsti; e un  pubblicano, che consapevole dei suoi limiti, spera solo di esser riconosciuto da Dio come “carne da misericordiare”. E noi da che parte stiamo? Siamo un po’ farisei e un po’ pubblicani. Come il pubblicano siamo peccatori e, come il fariseo, ci crediamo giusti. Se proprio dobbiamo somigliare ai due, sforziamoci di essere farisei (per rettitudine) nella vita e pubblicani (richiedenti perdono) al tempio. Buona domenica.


La Deus card, quando il rapporto con Dio diventa una raccolta punti

XXX per Annum – 23 Ottobre 2022

Prima lettura – Sir 35, 15-17.20-22 – La preghiera del povero attraversa le nubi. Dal Salmo 33: Il povero grida e il Signore lo ascolta. Seconda lettura – 2 Tm 4,6-8.16-18 – Mi resta solo la corona di giustizia. Vangelo – Lc 18, 9-14 – Il pubblicano tornò a casa giustificato, a differenza del fariseo.

Gesù prosegue il suo viaggio verso Gerusalemme. Abbiamo visto in queste settimane, quanto spesso sia stato avvicinato da persone che chiedevano di essere salvate. Ma va detto che, lungo la strada non sono mancati incontri con persone che lo volevano solo provocare, per farlo sbagliare, per fargli commettere errori e avere così qualcosa per cui accusarlo. Tra queste persone un posto privilegiato lo occupavano i farisei (in aramaico perushim, separati, una setta religiosa d’Israele), i quali, attenti come erano a contrastare il generale rilassamento morale del popolo ebreo, vedevano nel Maestro di Nazareth un disturbatore della quiete pubblica. I farisei erano studiosi della Scrittura, super osservanti della Legge di Mosè, conoscevano ogni dettaglio delle indicazioni di comportamento presenti nella Legge e le osservavano con grandissimo scrupolo. Erano delle persone a modo, veramente perbene, ma… Nella canzone Il Testamento di Tito, Fabrizio de Andrè dice «conoscono a memoria la Legge di Dio, ma scordano sempre il perdono». I farisei sanno di essere giusti, se ne fanno un vanto, e finiscono per ritenersi migliori degli altri, dimenticando cosa sia misericordia. «Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri» (Lc 18,9). A loro, ai farisei (di ieri e di oggi) Gesù racconta una parabola. Ci sono due uomini che salgono al tempo a pregare, uno è un fariseo, l’altro un pubblicano. Come dire il giorno e la notte, due estremi. Uno, come vedremo, stimatissimo, l’altro un poco di buono, uno «santo subito» già in vita, l’altro in una situazione di peccato tale che non ne potrà uscire manco a volerlo. Entrambi vanno al tempio per pregare. Hanno lo stesso desiderio, incontrare Dio, ma è diversissimo il loro atteggiamento dinanzi al Signore. Il fariseo è uno in gamba, molto religioso, un professionista del sacro, un osservante estremo. Non si accontenta dello stretto necessario, ma fa di più. Non digiuna soltanto un giorno come prescritto dalla legge, ma due giorni. È uno di quelli «con si ci pò appuntari na spingula – non gli si può appuntare uno spillo, dato il suo essere integerrimo», è uno che ha già la santità in tasca. Il pubblicano, invece, è un esattore delle tasse, uno che ha accettato di lavorare per conto degli invasori romani, e proprio per questo è considerato un imbroglione e un traditore. I pubblicani vincevano l’appalto per la riscossione dei tributi ai romani e applicavano alle tasse dei «ritocchi» per guadagnare a spese dei propri connazionali. Erano dei ladri, a dire di tutti, perché da che mondo è mondo «cu mania un pinia – chi maneggia denaro, certamente avrà i suoi guadagni». Entrambi i nostri amici, arrivati al tempio, iniziano la loro preghiera. Il primo ad arrivare è il fariseo, che pensa bene di mettersi in prima fila, in pole position: otterrà così due risultati, sarà più vicino a Dio, ma più di ogni altra cosa, tutti lo potranno guardare. «Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte a settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”» (Lc 18,11-12). Una bella preghiera, non c’è che dire, se non fosse che è una preghiera atea, senza Dio. Il fariseo «pregava tra sé», letteralmente, in greco, significa che «pregava rivolto verso di sé». Il tizio fa un preghiera che non è rivolta a Dio, ma è una lode a se stesso, usa la preghiera per vantarsi dinanzi a Dio. Non finisce di ripetere «io, io, io…». Il fariseo mostra a Dio la sua tessera, la sua card, dove ha accumulato con fatica i suoi punti, per ottenere i premi e i vantaggi previsti. Il fariseo è un «uomo che non deve chiedere mai» come diceva una vecchia pubblicità di un dopobarba (Denim, 1984). Non ha nulla da chiedere perché non ha bisogno di ricevere nulla. Non ha nulla da imparare, perché conosce meglio di tanti altri ciò che è bene e ciò che è male. Ma come dice il proverbio: «Cu si vanta ca so vucca o è asino o è cucca». Il fariseo sarà pure esperto nelle cose di Dio, ma Dio proprio non lo conosce. Ma la cosa peggiore del monologo, del soliloquio del fariseo è l’occhiata schifata che lancia verso il pubblicano. Si sente migliore e non fa nulla per non mostrare la sua superiorità. Davanti al suo sguardo non si salva nessuno. Non ha dubbi che, dovendo scegliere, Dio, nell’ottica di una religiosità meritocratica, sceglierà lui. Ma non si accorge che è talmente pieno di io, che in lui non c’è spazio né per Dio, né per gli altri. «Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”» (Lc 18,13). Nel frattempo anche il pubblicano è arrivato al tempio. Ha preferito restare in ultima fila. Ma pure essendo all’ultimo posto, lontano fisicamente da Dio, in realtà è vicinissimo. La sua preghiera è breve, diretta, sincera. È piena di Dio, riconosce che ha bisogno del Signore, chiede perdono, invoca misericordia. Non chiede nulla, sa di non potere pretendere nulla, non ha nulla da vantare. Sa di avere sbagliato, che le sue scelte sono state fallimentari, sperimenta che c’è vuoto attorno a lui e c’è vuoto dentro di lui. Ma quel vuoto, Dio saprà come riempirlo. «Io vi dico: questi, il pubblicano, a differenza dell’altro, del fariseo, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi si umilia sarà esaltato» (Lc 18,14). Il fariseo che si considerava il più bravo di tutti, se ne ritorna a casa con due peccati in più sul groppone: uno di superbia e uno di giudizio. Il pubblicano, invece, se ne torna a casa perdonato. Alla fine Gesù mostra come al solito la predilezione di Dio per i peccatori che invocano misericordia, piuttosto che per i «giusti» che si vantano e giudicano tutti gli altri. Il Signore non sceglie chi fa della religione motivo di vanto e usano Dio per incensare se stessi, ma sceglie chi si rivolge a Dio arrivando a liberarsi persino di se stessi. E noi da che parte stiamo? Forse siamo un po’ farisei e un po’ pubblicani. Come il pubblicano siamo peccatori e, come il fariseo, ci crediamo giusti. Ci comportiamo come pubblicani nella vita e come farisei nel tempio. Se proprio dobbiamo somigliare ai due uomini, sforziamoci di essere farisei (per rettitudine) nella vita e pubblicani (richiedenti perdono) al tempio. E non scordiamoci di ripetere continuamente «O Dio, abbi pietà di me peccatore» (Lc 18,13).


Ventinovesima Domenica per Annum

«Dio farà forse aspettare a lungo i suoi?» (Lc 18,7).

Capita, a volte, di pensar male di Dio, specie quando le nostre attese sono disattese.  Gesù, oggi, con la parabola della vedova stalker e del giudice ingiusto, vuole sostenere la nostra fede nella preghiera: se un giudice scorretto cede alle pressioni di una vedova, volete che Dio non ceda “pressato” dalle vostre preghiere? La nostra preghiera è come la connessione a internet, può essere lenta, può saltare, ma quando va bene ci apre un mondo! Fidatevi!


La vedova stalker e il giudice ingiusto

XXIX per Annum – 16 Ottobre 2022

Prima lettura – Es 17, 8-13 – Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva. Dal Salmo 120: Il mio aiuto viene dal Signore. Seconda lettura – 2 Tm 3, 14-4, 2 – L’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona. Vangelo – Lc 18, 1-8 Dio farà giustizia ai suoi eletti che gridano verso di lui.

L’insegnamento che Gesù ci dona nel Vangelo di oggi riguarda la necessità di pregare sempre, in ogni momento, in ogni situazione, senza stancarsi. Il Signore individua subito il possibile pericolo: la stanchezza. Ci si stanca di pregare, soprattutto quando il nostro grido non ha risposta. Gesù racconta una parabola. La protagonista è una vedova e il coprotagonista un giudice. La vedova appartiene alla categoria biblica dei senza difesa (il povere, l’orfano e la vedova). Non ha più il padre, il suo legame col passato, non ha più un marito, il suo legame con il presente, non ha figli, il suo legame con il futuro. E a peggiorare ulteriormente tutto, non ha denaro. Non ha né persone, né strumenti per la difesa. Dovrebbe difenderla la legge, un giudice, ma questo, almeno in un primo momento, non avviene. Il coprotagonista, come dicevamo, è un giudice che non brilla per onestà e correttezza, ma, soprattutto, non ha voglia di perdere il suo tempo a tentare di fare giustizia alla donna. Ma anche dinanzi alla poca professionalità del giudice, la donna non si scoraggia, non demorde, non molla la presa, s’attacca a camurria. Meno male che all’epoca non c’era ancora l’articolo 612 del Codice penale e non era punito il reato di stalking, il perseguitare un’altra persona, perché la nostra amica sarebbe finita dritta dritta in carcere o quantomeno sarebbe stata denunciata. I giorni passano e il giudice (se non fosse una carogna, farebbe quasi tenerezza…) si trova sempre la vedova tra i piedi, non lo molla, gli sta col fiato sul collo. Per un po’ avrà pure provato a far finta di niente, ma ad un certo punto la situazione sarà diventata insostenibile. «Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi» (Lc 18,5). Dinanzi alla ostinazione della donna, il giudice si trova costretto a capitolare. Ma da dove viene alla donna questa ostinazione? Dalla profonda certezza che, prima o poi, la sua supplica verrà esaudita e la sua tenacia è premiata. «E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti? Li farà forse aspettare a lungo? Vi dico che farà loro giustizia prontamente» (Lc 18,7). Con queste parole Gesù vuole sostenere la nostra speranza e la nostra resistenza nel pregare. Sembra dire: «Se interviene un giudice ingiusto, pressato dalla vedova, volete che non intervenga Dio, pressato dalle vostre preghiere?». Ma dobbiamo ammettere che spesso, spessissimo, praticamente sempre, proviamo disagio dinanzi al ritardo di Dio, al suo temporeggiare, davanti al trionfo del male, all’oppressore impunito. Entriamo in crisi perché non solo ci accorgiamo che Dio non ci ascolta, ma finiamo per dovere ammettere che compie azioni contrarie a quelle che vorremmo. E allora che fare? Gesù ci dice di insistere… Di insistere, perché Dio risponde alla preghiera a modo suo e non a modo nostro, esaudendo non le nostre richieste, ma le sue promesse! E tutto questo lo fa «prontamente» (Lc 18,7), dove l’avverbio non vuol dire subito, ma sicuramente. Con questa parabola a lieto fine, il Maestro vuole insegnarci sia il «come» si prega, sia «chi» dobbiamo pregare, ma soprattutto, ci invita a chiederci se «crediamo» nella preghiera. Sul «come» si prega Gesù ci dice che bisogna avere perseveranza, non ci si deve stancare. L’insistenza, è chiaro, non è per costringere Dio a soddisfare, tipo genio della lampada, i nostri bisogni sfiancato dalla noia e dalla stanchezza. Risulta chiaro che la preghiera non è nemmeno un modo per ammansire un padrone scontroso e lunatico. La preghiera è il combustibile per alimentare la fiamma della nostra fede. La preghiera è la connessione con Dio. E come la connessione a internet a volte risulta lento, funziona male, così avviene per il nostro collegamento con Dio. Ci sono momenti che Dio è irraggiungibile, il flusso dati è bloccato sia in entrata che in uscita. Ci vuole una vita perché la connessione sia perfetta, una connessione fatta di dati in uscita (ciò che desidero/pretendo da Dio), ma anche di dati in entrata (quello che Dio ha da dirmi). Parlando del «chi» preghiamo, Gesù ci ricorda che Dio è certamente diverso dal giudice disonesto e quindi merita tutta la nostra fiducia. Ma ci fidiamo veramente di lui? O ci rivolgiamo a lui solo per abitudine o per paura? «Quando il Figlio dell’uomo tornerà sulla terra, troverà ancora la fede?» (Lc 18,8). Questa domanda, lanciata quasi a brucia pelo da Gesù, ci permette di chiederci se crediamo nella preghiera. Riusciamo ad aspettare con pazienza, anche se Dio tarda a rispondere? Ci vuole molta fede nella preghiera e non solo per continuare a resistere anche quando non vediamo risultati. È un miracolo che la fede non venga meno nonostante il ritardo di Dio. Se lo scalatore non sapesse che alla fine del sentiero di montagna c’è un rifugio che lo accoglierà, non si metterebbe nemmeno in viaggio. È la certezza che alla meta c’è qualcosa che lo aspetta che lo fa tenere duro. E allora chiediamoci: Chi preghiamo? Come preghiamo? Crediamo nella preghiera? Se a queste domande sapremo dare risposte vere, alla domanda provocatoria di Gesù: «Quando il Figlio dell’uomo tornerà sulla terra, troverà ancora la fede?» (Lc 18,8), potremo alzare le braccia e rispondere: «Sì, Signore, troverai la fede, perché troverai noi!».


L’ubbidienza formale è anche peggio dell’opposizione dichiarata

XXVIII per Annum – 9 Ottobre 2022

Prima lettura – 2 Re 5,14-17 – Tornato Naamàn dall’uomo di Dio, confesso il Signore. Dal Salmo 97: Il Signore ha rivelato ai popoli la sua giustizia. Seconda lettura – 2 Tm 2,8-13 – Se perseveriamo, con lui anche regneremo. Vangelo – Lc 17,11-19 – Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero.

Gesù, come ci ricorda ancora una volta l’evangelista Luca, è in cammino verso Gerusalemme. È ormai quasi a metà del suo viaggio, sta per lasciare la Galilea ed è ormai alle porte della Samaria. A Gerusalemme, lo sappiamo, porterà a termine la missione affidatagli dal Padre, attraverso la sua morte e risurrezione. Sulla strada, il Maestro di Nazareth incontra gente di ogni tipo, desiderosa di infinito, ma precaria nel quotidiano. Per tutti c’è amore. Il Vangelo di oggi ci racconta di questo incontro. «Gesù, Maestro, abbi pietà di noi!» (Lc 17,13). Il Signore è alle porte di un villaggio e gli vengono incontro dieci uomini, dieci lebbrosi, che si fermano a distanza e gridano a Gesù la loro profonda sofferenza. Questi uomini vedono, giorno dopo giorno, il loro corpo sciogliersi, la loro vita è già intaccata dalla morte, sono esclusi, emarginati, disprezzati. Non possono entrare nel Tempio e non possono rendere culto a Dio. La lebbra veniva considerata un castigo di Dio per i peccati commessi e, anche per questo, oltre agli ovvio motivo di scongiurare un contagio, i lebbrosi venivano isolati ed estraniati da qualsiasi consesso o nucleo umano. Sono dei dead men walking, degli uomini morti che camminano, esclusi da Dio, dimenticati dagli uomini. I dieci uomini, pur essendo di nazioni diverse, probabilmente, stavano insieme per aiutarsi tra loro. Avranno sentito dire in giro che quel Maestro di Nazareth tanto famoso, sta per passare da quella zona e sperano di potere chiedere a lui di aiutarli. È la loro ultima chance. «Dacci solo un minuto!» (Cfr. Pooh, Dammi solo un minuto) sembrano urlare in coro. Avranno provato ogni cura umana, ma niente… E quando svanisce la speranza nei rimedi umani, nasce la fede nel miracolo. «Andate e presentarvi ai sacerdoti» (Lc 17,14). Gesù manda i lebbrosi, prima ancora che la guarigione sia avvenuta, dai sacerdoti perché la constatino. Risalta in questo modo la fede di questi uomini che si fidano delle parole del Maestro, gli hanno creduto, hanno posto in lui la loro fiducia e sono andati dai sacerdoti (I sacerdoti fungevano da «ufficio di igiene», da autorità sanitarie, spettava a loro certificare che la lebbra fosse sparita e riammettere così gli ex lebbrosi alla vita comune). I dieci uomini credono anche prima di vedere. Potrebbero benissimo dire: «Ma che ci andiamo a fare al tempio, visto che ancora siamo lebbrosi?». Eppure vanno e la loro fede non è vana: «E mentre essi andavano furono purificati» (Lc 17,14). «Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce , e si prostrò davanti a Gesù per ringraziarlo» (Lc 17,15-16). Adesso accade l’imprevedibile: uno dei dieci ex lebbrosi, un samaritano, l’eretico per eccellenza, i doppiamente escluso, accortosi di essere stato guarito, invece di correre, insieme agli altri, al tempio per avere subito il suo permesso per rientrare nella società, torna indietro per dire il suo «Grazie!» a Gesù. Nel suo tornare indietro c’è la conversione. Non riconosce solo di essere stato guarito, ma riconosce il guaritore e con lui vuole un legame. Non gli è bastata la guarigione, ha voluto rivolgere il suo sguardo al guaritore. La lebbra lo ha portato alla conoscenza di Dio. La religione lo aveva reso un uomo oppresso e solo, Gesù gli ha restituito la vita e gli ha donato la dignità di figlio. Il samaritano ha capito subito che la salute non viene dai sacerdoti, ma da Gesù, non dall’osservanza di leggi e riti, ma dal rapporto vivo con lui. «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono?» (Lc 17,17). Gesù è colpito dal samaritano, ma è deluso dagli altri nove. Eppure, se ci pensate, quegli uomini hanno solo ubbidito al suo comando di andarsi a presentare ai sacerdoti così come prescritto dalla Legge. Gesù invece voleva essere disubbidito! L’ubbidienza formale è anche peggio dell’opposizione dichiarata. È scomparsa la lebbra dal corpo, ma non quella del cuore. Hanno ricevuto un dono, ma non hanno dato importanza alla persona che glielo ha fatto. Per loro la guarigione segna la fine di una brutta storia da dimenticare il prima possibile, per tornare alla normalità (E vissero guariti e contenti…). Hanno usato Dio per il loro sogno di guarigione, gli è andata bene, ora il discorso è chiuso. Il genio della lampada può tornare alla sua lampada. I nove ex lebbrosi ora ingrati sono immagine di un cristianesimo molto diffuso, che ricorre a Dio come ad un potente da invocare nei momenti di difficoltà, da cui pretendere e ottenere tutto senza un minimo di gratitudine e riconoscenza. «Tu, mi dai la guarigione, io ti do l’offerta prescritta e… Amici più di prima». «Alzati e va’, la tua fede ti ha salvato» (Lc 17,19). Dieci lebbrosi guariti, uno solo salvato e per giunta quello che meno ti aspetti, un eterodosso, un meticcio. Tutti hanno una fede che guarisce, uno solo ha fede che guarisce e salva. Come è la nostra fede? Una fede che salva o è una fede che modifica qualcosa fuori di noi, ma in profondità ci lascia immutati? Sappiamo riconoscere la presenza di un Dio che trasforma la nostra vita e ci guarisce dalla lebbra del nostro peccato? Sappiamo accogliere con gratitudine il dono della salvezza?


Ventottesima Domenica per Annum

«E gli altri nove dove sono?» (Lc 17,17).

Il Vangelo racconta oggi la guarigione di dieci lebbrosi, che Gesù incontra nel suo viaggio verso Gerusalemme. Uno solo tra questi, ottenuto il miracolo, torna a ringraziare il Signore. Gli altri hanno ottenuto ciò che chiedevano e non ritengono di dovere ringraziare, dato che, per loro, esser guariti è un diritto. I nove ex lebbrosi, ora ingrati, sono immagine di chi “ricorre” a Dio come a un farmaco da assumere solo al bisogno. E noi? Spalanchiamo il cuore a un Dio che non ha controindicazioni né per la nostra salute, né tantomeno per la nostra salvezza…


Ventisettesima Domenica per Annum

«Siamo servi inutili» (Lc 17,10).

A chi volesse accampare chissà quali diritti, Gesù suggerisce di considerarsi non indispensabile. Siamo superflui: il mondo è già salvo e non certamente per merito nostro. A noi è chiesto “solo” di vivere da salvati e di camminare come uomini di fede. Per il resto lasciamo fare a Dio il suo “mestiere”! Fidiamoci di Chi non abbandona la SUA Chiesa neanche quando ne smontiamo la credibilità pezzo per pezzo. Buona domenica.


Il gusto della fede

XXVII per Annum – 2 ottobre 2022

Prima lettura – Ab 1,2-3; 2, 2-4 – Il giusto vivrà per la sua fede. Dal Salmo 94: Ascoltate oggi la voce del Signore. Seconda lettura – 2 Tm 1,6-8.13-14 – Non vergognarti di dare testimonianza al Signore nostro. Vangelo – Lc 17, 5-10 – Se aveste fede!

Ci sono pagine di Vangelo talmente dure, che dopo averle proclamate, viene difficile dire pure la locuzione «Parola del Signore». Si vorrebbe che certe parole non fossero mai uscite dalla bocca di Gesù. Quella appena proclamata è una di quelle pagine. Il Signore ha parole veramente dure: prima dice ai suoi discepoli che non hanno fede e poi dice che quando hanno fatto tutto quello che potevano, possono solo dire di essere servi e per giunta inutili. Ma per fortuna quasi sempre l’apparenza inganna e vedremo che il messaggio di Gesù è meno duro di quanto sembri. Per comprendere bene, almeno la prima parte del Vangelo di oggi, è necessario un piccolo passo indietro. Dobbiamo leggere i quattro versetti del capitolo diciassettesimo di Luca, che precedono il nostro testo. In quei versetti Gesù afferma: «È inevitabile che vengano scandali, ma guai a colui a causa del quale vengono. È meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli. State attenti a voi stessi! Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: “Sono pentito”, tu gli perdonerai» (Lc 17,1-4).Il Maestro è veramente esigente: non si deve dare scandalo, ma soprattutto si deve perdonare fino a sette volte al giorno. Impresa titanica. I poveri discepoli sono spiazzati, si rendono conto che non è per nulla facile avere gli atteggiamenti che Gesù ha appena richiesto e cioè l’attenzione verso i più piccoli e il perdono fino a sette volte al giorno. A questo punto si rivolgono al loro Maestro, perché gli dia la forza per mettere in pratica tali «suggerimenti». «Accresci in noi la fede!» (Lc 17,6). I discepoli ammettono di non potercela fare da soli e chiedono un supplemento. Sembrano dire: «Va bene, Signore, ti seguiamo, ma fai crescere in noi la fede, aumentala, moltiplicala. «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (Lc17,7). Un granellino di senape, una cosina praticamente invisibile. I poveri apostoli pensavano di averne un bel po’ di fede e di necessitare solo di un piccolo aumento e invece il Maestro toglie loro ogni illusione dicendo che ne hanno ancora meno di un granello di senape. O almeno così sembra. In realtà Gesù sta dicendo loro che non è questione di quantità di fede, ma di qualità. Di fede, se è vera, ne basta pochissima. Basta un po’ di fede in Dio per rendere meno insopportabile la travagliata esistenza umana. Ma Gesù ci indica il granello di senape anche per un altro motivo. Il seme di senape ha piccole dimensioni, ma ha un sapore piccante e pungente. Alla fine, se ci pensate, non conta tanto la dimensione o la quantità, quanto il sapore che la fede stessa dà alla nostra vita. Chiediamoci se la fede rende saporita la nostra, se la nostra giornata ha un gusto speciale grazie alla nostra fede, se il gusto della fede è quello più forte nella nostra vita? Ma prima di ogni cosa chiediamoci se la nostra fede ha il sapore piccante e saporito della senape o è come l’acqua inodore, incolore, insapore. Se la nostra fede è quanto un granellino di senapa, potremo anche dire a un gelso, dalle radici lunghe e robuste, all’albero delle nostre paure: «Va jeccati a mari!». Perché chi ha fede, non quella sicura e spavalda, ma quella precaria e fragile, sa che il male non trionferà mai definitivamente. Poi Gesù continua… «Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (Lc 17,7-10). Con questa piccola parabola che descrive il rapporto teso, per certi versi crudele, che esiste tra un padrone e uno schiavo, il Maestro non vuole descriverci i comportamenti di Dio verso l’uomo, ma indicare quali devono essere i comportamenti dell’uomo verso Dio. Lo schiavo è un poveraccio privo di ogni tutela giuridica. Non ha nessun sindacato che lo sostiene. Il padrone non ha obblighi verso di lui. E lo schiavo conclude in cuor suo che è un servo inutile, cioè che non può pretendere nulla. Noi forse viviamo il cristianesimo con lo spirito del salariato (tanto lavoro, tanta paga), lavoriamo per versare i nostri contributi all’INPS del Paradiso, rivendichiamo trattamenti speciali (Ho fatto per il Signore tutto quello che potevo fare, adesso mi aspetto una bella ricompensa!) e ci rivolgiamo anche ai sindacati. «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc17,10). Non è un’autodemolizione, ma un renderci conto che il nostro rapporto di fede con Dio ci mette nella dimensione del servizio. Salta in questo modo la concezione economica della religione. Noi siamo niente, siamo solo schiavi, servi senza pretese. Non possiamo accampare diritti. Ma non è questione di dire: «Non valgo niente», perché il più delle volte questo è un modo per farsi notare (è anche questo orgoglio sotto mentite spoglie…). Non dobbiamo fare le cose per meritare approvazione, appoggio, elogi o, magari, una promozione, ma semplicemente per mostrare che apparteniamo a Dio. Siamo solo servi… Non siamo «l’ombelico del mondo». Il mondo è già salvato, per fortuna non è necessario il nostro contributo.