Archivi del mese: novembre 2021

Non ora, non qui

I di Avvento – 28 Novembre ‘21

Prima lettura – Ger 33,14–16: Farò germogliare per Davide un germoglio di giustizia. Dal Salmo 24: A te, Signore, innalzo l’anima mia. Seconda lettura – 1 Ts 3,12-4,2: Il Signore renda saldi i vostri cuori al momento della sua venuta. Vangelo – Lc 21,25-28.34-36: La vostra liberazione è vicina.

Auguri, buon anno! Tranquilli non sono né ubriaco, né impazzito. Oggi è il capodanno dell’anno liturgico, dell’anno della Chiesa. Inizia oggi un nuovo anno in cui siamo invitati a tenere lo sguardo rivolto a Gesù, alla sua vita e al suo insegnamento. È bellissimo che inizi un nuovo anno. Abbiamo la possibilità di ripartire, di mettere nelle mani di Dio le nostre ferite, le nostre delusioni. Non importa quanta fragilità abbiamo sperimentato, non contano quante e quali siano state le delusioni accumulate, il Signore ci chiama a ripartire, a resettare la nostra vita. Il primo appuntamento del nuovo anno è l’Avvento (dal latino ad ventus, venuta, avvicinamento, arrivo), un tempo di quattro settimane per prepararsi al Natale, anche se guardandosi attorno sembra già Natale (luci, addobbi, spot di panettoni, torroni e pandori). È inutile dire che Natale non è questo! Natale sarà Natale solo quando cambierà le nostre scelte quotidiane, inciderà nella nostra vita. L’Avvento ha lo scopo di accompagnarci, di svegliarci, di renderci lucidi. Non possiamo correre il rischio di giungere al Natale quasi senza rendercene conto, finendo per lasciarci scivolare il tempo addosso. Nelle quattro settimane di Avvento, scopriremo che Dio non si è ancora stancato di noi e, se lo conosco un po’, non si stancherà tanto facilmente! L’Avvento è dunque un sostare in silenzio per capire una presenza. Ma l’uomo moderno è ancora capace di attesa? O forse si accontenta dell’immediato e del «tutto e subito»? Eppure, nonostante l’uomo di oggi sia consapevole delle proprie capacità, abbia ottenuto grandi vittorie e abbia visto realizzarsi tanti suoi progetti, per certi versi non si vedono grandi passi avanti. L’uomo continua a interrogare gli astri per conoscere il futuro, continua ad affidarsi ai maghi per risolvere i propri problemi o per avere supplementi di energia, continua a fuggire in mondi artificiali (droghe e alcool). È chiaro che l’uomo porta nel cuore un’attesa, ma forse non l’ammetterà nemmeno a se stesso e preferirà tenersi un vuoto incolmabile. L’uomo di oggi è come Didi e Gogo, i due mendicanti protagonisti dell’opera teatrale di Samuel Beckett, «Aspettando Godot». I due, di Godot, non sanno nulla, non lo conoscono neppure e non sanno quando avverrà l’incontro. Consumano la loro vita nell’attesa, annaspano tra speranze irrealizzabili e fanno progetti con la stessa consistenza dei castelli di sabbia che i bimbi fanno, d’estate, in riva al mare. Non è forse questa l’attesa dell’uomo d’oggi? Ma l’attesa del cristiano non è senza senso! Il cristiano deve «solo» riconoscere i segni della presenza di Dio nella storia, nel mondo, rifiutando chi propone salvezze «low cost». Il Vangelo di oggi, anche se non si direbbe, è improntato alla speranza. Gesù è nel Getsemani, sul monte degli Ulivi, proprio di fronte al Tempio. E mentre osserva da lì il luogo santo degli ebrei, risponde alle domande dei discepoli che sono preoccupati del futuro, vorrebbero sapere cosa accadrà, ma soprattutto quando. Scrutare il futuro, da che mondo è mondo è connaturale all’uomo. I Greci e i Romani interrogavano le Sibille, gli Ebrei cercavano di evocare i morti. Poi è stata la volta di Nostradamus e delle sue profezie. Anche oggi in molti si interrogano su «cosa sarà di noi»… E per darsi una risposta, parecchi consultano gli oroscopi (che non mancano in nessun quotidiano, tranne, ovviamente su Avvenire…), altri si rivolgono a maghi, cartomanti e imbroglioni affini. Ci sono poi diverse sette pseudo religiose che annunciano e riannunciano la fine del mondo a scadenze dilazionate. Di questi tempi va molto di moda la profezia dei Maya secondo cui il 21 dicembre prossimo, se tutto va bene (!), finirà il mondo. Ma torniamo al Vangelo… Per rispondere all’interrogativo dei discepoli, Gesù usa un linguaggio apocalittico, con immagini che hanno un sapore misterioso. Quando pensiamo a qualcosa di apocalittico, la nostra mente corre alla fine del mondo, magari con un delirio di fiamme, catastrofi e distruzione. In realtà il termine apocalittico indica un genere letterario, che va interpretato e che letteralmente significa rivelare, svelare qualcosa di nascosto. In altri termini, il desiderio di Gesù non è quello di spaventare, ma vuole, al contrario, lanciare un messaggio di speranza. Sta dicendo chiaramente ai suoi di non accampare scuse per sfuggire al presente, alle responsabilità, ma di vivere il presente con impegno e attenzione, senza farsi distrarre. «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria» (Lc 21,25-27). I discepoli si sentono dare una risposta che non è certo quella che desiderano. Vorrebbero che Gesù, calendario alla mano, desse un appuntamento certo, una scadenza certa con giorno e orario, così da potersi organizzare adeguatamente. Ci vorrebbe la data di scadenza: mondo da consumarsi preferibilmente entro… Il Maestro li istruisce a modo suo sull’evento che ricapitolerà tutta la storia e cioè il suo ritorno alla fine dei tempi. Loro chiedono notizie circa la fine del mondo, e lui risponde parlando del fine del mondo, del senso della storia. Gesù dice: «Cari amici, non preoccupatevi di quando sarà la fine, ma vivete il presente, nella certezza che questo mondo va verso un fine, non precipita nel nulla, ma nelle braccia di Dio. Il vostro problema non è il “quando”, ma il “come” attendere che questo mondo giunga alla fine» Gesù invita a evitare di cadere nella tentazione del piacere alienante, ma anche delle preoccupazioni, fosse anche per cose buone, che potrebbero farci perdere l’essenziale. «Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» (Lc 21,28). Non viviamo tempi facili, lo scoraggiamento è alle stelle, la violenza pure. Tra tredicesime che non vedremo, lavori precari e una dilagante povertà, tra affetti frantumati e paure di amare rischiamo di crollare e di arrenderci. Ci sentiamo come pesci fuor d’acqua. E Gesù sembra dirci: «Quando accade tutto questo, alzate lo sguardo. Non rimanete schiacciati. Riprendete in mano la vostra dignità. Non sentirti come un ergastolano che non vede speranza oltre il “fine pena mai”. Le fatiche e le prove della vita sono lì apposta per far crescere, possono diventare un trampolino di lancio, devono aiutare a conoscere il senso segreto delle cose». La fede non è né un’assicurazione né un anestetico. Credere non ci risparmia da sciagure e dolori, ma ci da una certezza: l’ultima parola spetta a Dio. Quando succedono cose storte, rischiamo di pensare che tutta la vita sia in quell’evento, in quella disgrazia e invece no: quello è solo un momento, una situazione, perché la vita è un’altra, ha un oltre. Tutto risulta relativo, rispetto a un assoluto, che è la certezza del ritorno di Gesù. A questo punto Gesù rincara la dose… «State attenti, Vegliate» (Lc 21,34.36). A ognuno il Signore chiede, fin da ora, di essere vigilanti, di saper leggere la realtà con lo sguardo rivolto all’eternità, sapere ritrovare una certa interiorità. Il Maestro vuole attirare la nostra attenzione sull’unico incontro sull’appuntamento, in fondo alla nostra storia personale, verso cui ciascuno di noi si sta muovendo, cioè quello con la morte. Gesù ci suggerisce di impostare la nostra vita come l’attesa di un incontro con Qualcuno. Ma noi attendiamo il Signore? Desideriamo veramente incontrarlo? Non rispondiamo subito, in maniera istintiva. Dalla risposta, vera, a questi interrogativi, deve nascere un comportamento quotidiano capace di rendere conto della speranza che ci abita. Il fatto che Gesù non ci dia una data precisa per la realizzazione delle promesse di Dio, non è un modo per tenerci sulle spine, anzi al contrario sembra dirci: «Invece di essere impazienti e lamentarvi, tenete occhi e cuore aperto, perché ogni giorno potrebbe essere quello giusto. State con il radar acceso, tenete gli occhi spalancati. State seduti sul bordo della sedia, pronti ad alzarsi e a pagare di persona. Cogliete anche il minimo segno di speranza». Ignoriamo il tempo della fine, ma viviamo il tempo in cui non dobbiamo restare seduti ad aspettare, ma in cui dobbiamo impegnarci a vivere, senza chiasso, con semplicità, il Vangelo nella vita quotidiana. Diceva Bonhoeffer che «l’attesa per le cose ultime, implica l’impegno per le penultime». Ma allora dobbiamo vivere, come si diceva una volta, col «memento mori – ricordati che devi morire»? No, tranquilli, anche perché mi pare sia un terrorismo spirituale che ci distrae dalla gioia di vivere. E poi se si vive senza peccato solo per paura di essere giudicati male da Dio, si finisce per non amare il Signore. E allora che si fa? Qualche anno fa Vasco Rossi cantava: «voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha» (Vasco Rossi, Un senso). E qualche secolo prima Shakespeare nel suo Macbeth faceva dire a uno dei personaggi: la vita «È un racconto | narrato da un idiota, pieno di suoni e furore, | significante niente» (William Shakespeare, Macbeth, atto V, scena V, vv. 17-27). Infine nel suo romanzo Il tunnel, lo scrittore tedesco Friedrich Duerrematt descriveva la vita come un treno con il freno di emergenza rotto e la cabina di guida vuota, che precipita verso il centro della terra. In altri termini la vita è un precipitare verso il baratro. Dio, se esiste, ha abbandonato la cabina di guida del mondo e l’uomo si ritrova a trascinare una esistenza senza senso, senza speranza. Ma è davvero questo la vita, solo una folle, assurda corsa verso lo sfacelo totale? Per noi cristiani, la vita, la storia hanno un senso e ci è stato rivelato proprio da Gesù: sarà lui a chiudere il capitolo della nostra vicenda terrena e aprire quello definitivo della vita eterna. Dopo la soglia dell’ultima pagina del calendario della storia, non ci sarà il nulla, ma l’eternità di Dio. Ricordiamoci di essere, finché le stelle staranno in cielo (Cfr. Kristin Harmel) in una «collocazione provvisoria» (Cfr. Tonino Bello), siamo sulla terra, ma siamo fatti di cielo e per il cielo. Non rifuggiamo la vita, ma non restiamole nemmeno aggrappati. Siamo fatti per altro e per un oltre. Quello per cui vale veramente la pena vivere non è ora, non è qui.


Prima Domenica di Avvento

«State attenti, vegliate» (Lc 21,34.36).

Gesù, all’inizio dell’Avvento, ci suggerisce di vivere la nostra vita come l’attesa dell’incontro che avremo con lui, in fondo alla nostra storia personale. Ma noi attendiamo il Signore? Desideriamo veramente incontrarlo? Non rispondiamo in maniera istintiva. Dalla risposta a questi interrogativi deve nascere un comportamento quotidiano capace di dire Cristo. Buona I di Avvento.


Ambasciatori veri di un Re ridicolo

XXXIV per Annum – 21 novembre ‘21

Prima lettura – Dn 7,13-14: Il suo potere è un potere eterno. Dal Salmo 92:Venga, Signore, il tuo regno di luce. Seconda lettura – Ap 1,5-8: Il principe dei re della terra ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio. Vangelo – Gv 18,33b-37: Tu lo dici: io sono re.

Oggi è l’ultimo dell’anno, dell’anno liturgico, s’intende. È occasione di bilanci, per chiedersi chi siamo diventati, come e quanto abbiamo camminato, dove siamo arrivati. Ma è anche occasione di propositi per il cammino che percorreremo ancora. Oggi è anche festa, è la festa di Cristo Re dell’Universo. Festa strana, buffa. Quando negli anni ’20, Pio XI la propose poteva anche avere un senso, visto che in giro c’erano tanti sovrani felicemente regnanti e il papa voleva contrapporre a questi un vero re. Oggi sembra quasi frutto di rigurgiti monarchici della Chiesa. Ma state tranquilli nessun rigurgito. Dire che Cristo, un ebreo marginale, un ebreo qualunque, un falegname di Nazareth, un ebreo vissuto più di 2000 anni fa’, è re significa dire che è sovrano della mia vita, del mio cuore. Significa riconoscere che in lui e solo in lui ha senso il cammino della nostra vita. Significa dire che Gesù è il padrone della baracca! Cristo è un re «sui generis» però. Non ha un trono, ma finisce in croce; non ha uno scettro ma mani chiodate; invece di regnare, serve; e invece di trionfare, fallisce miseramente. Ma è un re, un re che si preoccupa di ciascuno di noi e che ci ritiene unici. Il Vangelo che abbiamo ascoltato ci ha presentato il drammatico dialogo tra Ponzio Pilato e Gesù, prima che il Signore fosse condannato a morte. Un dialogo denso di significato che ci aiuta a comprendere in cosa consista la regalità di Cristo. Siamo nel contesto della passione secondo Giovanni (Cfr. Gv 18,1-19,37): le autorità religiose di Israele, dopo aver interrogato Gesù, lo hanno condotto nel pretorio, dove ha inizio il processo romano. Gesù e Pilato, uno di fronte all’altro. Sembra una rappresentazione teatrale. Due poteri che si contrappongono: uno, quello di Pilato, fonda la sua verità sulla forza e sulle armi, l’altro, quello di Gesù, si fonda sulla forza della verità. Il potere di Pilato sta nel trattare gli uomini come fossero cose e imponendo la supremazia, senza possibilità di rifiuto. Il potere di Dio, invece, sta nel non imporsi, ma nel proporsi, nella sua possibilità di essere rifiutato. Chi dei due esce vincitore da quel confronto? Apparentemente Pilato, ma duemila anni di Cristianesimo ci dicono che il Dio sconfitto sulla croce, non ha fallito. Pilato pone subito a Gesù l’unica domanda che gli preme come rappresentante del potere politico: «Tu sei il re dei Giudei?» (Gv 18,33). Ecco il capo di imputazione. Pilato conosceva, probabilmente, la speranza giudaica nella venuta di un re che avrebbe liberato con la forza Israele dal giogo romano. «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù» (Gv 18,36). Gesù sembra dire: «Tranquillo, Pilato, non ho eserciti, non so cosa sia la violenza, non passa da queste cose il mio Regno, è un regno che ha un’altra logica». «Dunque tu sei re?», chiede Pilato desideroso di sapere, tradendo forse un po’ di paura. Gesù non ha proprio l’aria di essere un re eppure così glielo avevano presentato come un facinoroso che si fa re. Forse Pilato vuole salvare Gesù, ma non perché gli importi qualcosa di lui, ma semplicemente per umiliare il Sinedrio e i capi religiosi di Israele. «Tu lo dici» (Gv 18,37). Mi fa impazzire questa risposta di Gesù. «Caro Pilato, cari tutti, siete liberi di crederlo o meno, io non mi voglio imporre». Il Cristianesimo è una proposta rifiutabile. Nulla a che vedere con «la proposta che non si può rifiutare» del Padrino. «Per dare testimonianza alla verità» (Gv 18,37). Gesù è la verità di Dio, non un concetto astratto, ma la rivelazione del disegno di salvezza e dell’amore, ma è anche la verità dell’uomo, perché ne rivela il valore, il senso, la vocazione. Abbiamo assistito a un processo oggi. Niente a che vedere con Forum di Rita Dalla Chiesa o robe simili che ci propinano in televisione. Abbiamo assistito al processo che Pilato ha condotto contro Gesù. L’accusato è anche il giudice. Un giudice che emette un verdetto che impone una presa di posizione. Dopo quel processo non c’è più spazio per la neutralità. Attenzione a una vita priva di senso, «senza infamia e senza lode» (Dante, Inferno, III, 35-36), in standby, né caldi, né freddi. Siamo chiamati a costruire succursali del Regno di Dio. Siamo chiamati a essere ambasciatori di un re ridicolo, forse, ma capace di vincere e stravincere. È vero che seguire un Dio che, per amore muore, non è semplice, ma è l’unico Dio per cui vale la pena vivere!


Trentaquattresima Domenica per Annum – Cristo Re

«Sei re?» (Gv 18,36).

Oggi è la festa di Cristo Re. Quindi Gesù è re? La cosa ci spiazza. È un re strano, senza un trono, finito inchiodato a una croce. Un perdente, ma non un fallito. Dobbiamo essere ambasciatori di un re che sarà pure ridicolo, ma è l’unico Dio per cui vale la pena vivere. Buona domenica.


Collocazione provvisoria, finché le stelle staranno in cielo

XXXIII per Annum – 14 novembre ‘21

Prima lettura – Dn 12,1-3: In quel tempo sarà salvato il tuo popolo. Dal Salmo 16: Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio. Seconda lettura – Eb 10,11-14.18: Cristo ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati. Vangelo – Mc 13,24-32: Il Figlio dell’uomo riunirà i suoi eletti.

La scorsa domenica, se vi ricordate, avevamo lasciato Gesù al tempio di Gerusalemme, nel cortile delle «vedove», che osservava la sfilata dei pellegrini dinanzi al tesoro del tempio. E se vi ricordate ci aveva dato come esempio da seguire non quelli che si proponevano come tali, cioè gli scribi con gli abiti firmati e con le preghiere reclamizzate, ma una povera vedova, capace di affidarsi al Signore e di fidarsi totalmente di lui. Oggi Gesù è nel Getsemani, sul monte degli Ulivi, proprio di fronte al Tempio. E mentre osserva da lì il luogo santo degli ebrei, risponde alle domande dei discepoli che sono preoccupati del futuro, vorrebbero sapere cosa accadrà. Scrutare il futuro, da che mondo è mondo è connaturale all’uomo. I Greci e i Romani interrogavano le Sibille, gli Ebrei cercavano di evocare i morti. Poi è stata la volta di Nostradamus e delle sue profezie. Anche oggi in molti si interrogano su «cosa sarà di noi»… E per darsi una risposta, parecchi consultano gli oroscopi (che non mancano in nessun quotidiano, tranne, ovviamente su Avvenire…), altri si rivolgono a maghi, cartomanti e imbroglioni affini. Ci sono poi diverse sette pseudo religiose che annunciano e riannunciano la fine del mondo a scadenze dilazionate. Di questi tempi va molto di moda la profezia dei Maya secondo cui il 21 dicembre prossimo, se tutto va bene (!), finirà il mondo. Ma torniamo al Vangelo… Per rispondere all’interrogativo dei discepoli, Gesù usa un linguaggio apocalittico, con immagini che hanno un sapore misterioso. Quando pensiamo a qualcosa di apocalittico, la nostra mente corre alla fine del mondo, magari con un delirio di fiamme, catastrofi e distruzione. In realtà il termine apocalittico indica un genere letterario, che va interpretato e che letteralmente significa rivelare, svelare qualcosa di nascosto. In altri termini, il desiderio di Gesù non è quello di spaventare, ma vuole, al contrario, lanciare un messaggio di speranza. Sta dicendo chiaramente ai suoi di non accampare scuse per sfuggire al presente, alle responsabilità, ma di vivere il presente con impegno e attenzione, senza farsi distrarre. «Dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria» (Mc 13,24-26). I discepoli si sentono dare una risposta che non è certo quella che desiderano. Vorrebbero che Gesù, calendario alla mano, desse un appuntamento certo, una scadenza certa con giorno e orario, così da potersi organizzare adeguatamente. Ci vorrebbe la data di scadenza: mondo da consumarsi preferibilmente entro… Il Maestro li istruisce a modo suo sull’evento che ricapitolerà tutta la storia e cioè il suo ritorno alla fine dei tempi. Loro chiedono notizie circa la fine del mondo, e lui risponde parlando del fine del mondo, del senso della storia. Gesù dice: «Cari amici, non preoccupatevi di quando sarà la fine, ma vivete il presente, nella certezza che questo mondo va verso un fine, non precipita nel nulla, ma nelle braccia di Dio. Il vostro problema non è il “quando”, ma il “come” attendere che questo mondo giunga alla fine». A questo punto il Maestro fa un riferimento agricolo: «Dalla pianta di fico imparate la parabola» (Mc 13,28). Non so se avete presente il fico… Ha un tronco grigiastro e per buna parte dell’anno è spoglio, senza foglie. Solo durante la primavera e l’estate si ricopre di foglie ampie come una mano aperta. All’ombra di queste foglie, maturano frutti carnosi e dolcissimi. Gesù dice ai suoi: «Così come i contadini sanno riconoscere che arriva l’estate, dal mutare della vegetazione del fico, così dovete diventare capaci di riconoscere i segni dei tempi, dovete essere capaci di speranza. Attorno potrà pur esserci desolazione, ma il vostro sguardo dovrà cogliere la foglia tenera sul ramo del fico, dovrà cogliere la certezza che il futuro, anche se il presente è difficile, avrà un altro volto». «Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre» (Mc 13,32). Il fatto che Gesù non ci dia una data precisa per la realizzazione delle promesse di Dio, non è un modo per tenerci sulle spine, anzi al contrario sembra dirci: «Tenete occhi e cuore aperto, perché ogni giorno potrebbe essere quello giusto. State con il radar acceso, tenete gli occhi spalancati. State seduti sul bordo della sedia, pronti ad alzarsi e a pagare di persona. Cogliete anche il minimo segno di speranza». Ignoriamo il tempo della fine, ma viviamo il tempo in cui non dobbiamo restare seduti ad aspettare, ma in cui dobbiamo impegnarci a vivere, senza chiasso, con semplicità, il Vangelo nella vita quotidiana. Diceva Bonhoeffer che «l’attesa per le cose ultime, implica l’impegno per le penultime». Ma allora dobbiamo vivere, come si diceva una volta, col «memento mori – ricordati che devi morire»? No, tranquilli, anche perché mi pare sia un terrorismo spirituale che ci distrae dalla gioia di vivere. E poi se si vive senza peccato solo per paura di essere giudicati male da Dio, si finisce per non amare il Signore. E allora che si fa? Qualche anno fa Vasco Rossi cantava: «voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha» (Vasco Rossi, Un senso). E qualche secolo prima Shakespeare nel suo Macbeth faceva dire a uno dei personaggi: la vita « È un racconto | narrato da un idiota, pieno di suoni e furore, | significante niente » (William Shakespeare, Macbeth, atto V, scena V, vv. 17-27). Per noi cristiani, la vita, la storia hanno un senso e ci è stato rivelato proprio da Gesù: sarà lui a chiudere il capitolo della nostra vicenda terrena e aprire quello definitivo della vita eterna. Dopo la soglia dell’ultima pagina del calendario della storia, non ci sarà il nulla, ma l’eternità di Dio. Ricordiamoci di essere, «finché le stelle staranno in cielo» (Cfr. Kristin Harmel) in una «collocazione provvisoria» (Cfr. Tonino Bello), siamo sulla terra, ma siamo fatti di cielo e per il cielo. Non rifuggiamo la vita, ma non restiamole nemmeno aggrappati.


Trentatreesima Domenica per Annum

«Nessuno lo sa» (Mc 13,32).

I discepoli chiedono a Gesù quando finirà il mondo. Vorrebbero la data di scadenza: “Mondo da consumarsi preferibilmente entro…”. Gesù risponde dicendo non QUANDO finirà, ma COME prepararsi a quel giorno: tenendo cuore e occhi aperti perché ogni giorno potrebbe essere quello giusto. Siamo in collocazione provvisoria perché pur essendo sulla terra, siamo fatti di cielo e per il cielo. Buona domenica.


Bilancia pesacuori

XXXII per Annum – 7 novembre ‘21

Prima lettura – 1Re 17,10-16: La vedova fece con la farina una focaccia e la portò ad Elia. Dal Salmo 145:Loda il Signore, anima mia. Seconda lettura – Eb 9,24-28: Cristo si è offerto una volta per tutte. Vangelo – Mc 12,38-44: Questa vedova, nella sua povertà, ha dato tutto quello che aveva.

Gesù è finalmente arrivato a Gerusalemme. In queste settimane lo abbiamo seguito nel suo viaggio che da Cafarnao, dalla Galilea, lo ha portato alla Giudea, alla Città santa. Attorno a lui c’è un clima pesante. C’è ormai aperto contrasto con l’establishment d’Israele e Gesù non perde occasione per scagliarsi contro la religiosità di sommi sacerdoti, scribi e farisei, fatta più di gesti esteriori che di convinzioni profonde e vita vera. A più riprese il Signore ha notato e fatto notare che gli uomini «religiosi», animati dalla loro pretesa giustizia, si ergono a esempio da imitare ma finiscono per esibire le proprie virtù, solo per suscitare l’ammirazione degli altri. Oggi, l’abbiamo sentito, il suo «j’accuse» è rivolto contro gli scribi, colpevoli a suo dire, di essere intrisi di ipocrisia, cioè del «fare scena», del «fare show», del «fare brodo», dell’apparire piuttosto che dell’essere, del vivere per avere gli applausi degli uomini, piuttosto che piacere a Dio. Sono affetti di strabismo spirituale, con un occhio, cioè, guardano a Dio, ma con l’altro guardano la gente da cui vogliono farsi ammirare. Gesù non si fa problemi a parlare, non invita a capire, ad avere pazienza, a scusare. Puoi dare anche la vita, ma se, come dice Paolo, non hai la carità nel cuore e lo fai per sentirti un eroe, lascia perdere! Gesù non si lascia ingannare dalla loro vita religiosa integerrima. L’atto di accusa di Gesù non è fine a se stesso, ma manifesta la preoccupazione che il Maestro ha che i suoi discepoli possano diventare come gli scribi. Ma chi erano questi scribi? In origine era semplicemente gente che sapeva leggere e scrivere e che, quindi, assumevano un ruolo importante per la trasmissione dei testi. Via via il loro prestigio era notevolmente lievitato, trasformandoli in custodi ed interpreti della Legge, facendoli diventare delle autorità. Erano una vera «casta», ossequiata, rispettata, sempre pronta ad assicurarsi i primi posti nelle manifestazioni pubbliche non solo religiose. Facevano delle preghiere ostentate, reclamizzate, per apparire vicini a quel Dio che in realtà «sputtanavano» e tradivano con la vita. «Essi riceveranno una condanna più severa» (Mc 12,40). Ma perché?, perché potevano fare molto, moltissimo bene e non l’hanno fatto, sciupando e sperperando. Finito l’atto d’accusa, abbiamo un cambio scena. Comprendiamo di essere nel Tempio di Gerusalemme, più precisamente nel cortile «delle Vedove», dove erano collocati tredici grandi ceste per le offerte al Tempio. Un sacerdote sovrintendeva alle operazioni e quando qualcuno faceva offerte consistenti si usava suonare la tromba per segnalare la loro generosità e per sottolineare il gesto. Era un modo cioè per ricevere un riconoscimento pubblico. Gesù è lì con i suoi discepoli e si dimostra un grande osservatore. A partire da azioni semplici e quotidiane, infatti, sa dare uno sguardo altro alla realtà e sa leggere l’intenzione profonda del cuore. Tante persone mettono le offerte nel tesoro, i ricchi, avendone la possibilità, abbondano nella generosità, cercando la fama, la gloria, lo sguardo ammirato degli altri e, perché no, cercando di comprarsi il favore di Dio. Guardando la processione verso il tesoro, Gesù si accorge che una vedova ha gettato nel tesoro solo due piccole monete e subito ne esalta il gesto, la loda e la addita ai suoi discepoli come modello: «Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: “In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”» (Mc 12,43s). Mentre tutti erano più interessati all’entità della donazione, Gesù si mostra attento al cuore guida la mano. Il «come» pesa più del «quanto» ed è chiaro che non è questione di tasca, ma di cuore. Le bilance di Dio non sono quantitative, ma sono bilance «pesacuori». Il giudizio di Dio capovolge il nostro. Noi misuriamo la quantità del dono: chi offre 100 euro offre di più di chi offre un centesimo. Dio al contrario guarda in che misura il dono che facciamo esprima il dono di ciò che siamo. Non si può donare se stessi assicurando allo stesso istante il proprio benessere. Chi dona e si dona mette a rischio se stesso, accettando la perdita che ogni dono implica. Ma torniamo al Vangelo, mi viene da chiedermi che ha fatto di così speciale questa donna? Partiamo col dire che non è un caso che ci venga detto che è una vedova. La vedovanza che già di per sé è uno stato di grande dolore, di lacerazione interiore, di frantumazione di affetti, al tempo di Gesù era una vera tragedia. Non c’erano servizi sociali, non c’erano pensioni di reversibilità e spesso la vedova, per vivere, si vedeva costretta a mendicare, o peggio, a prostituirsi. La grandezza della vedova sta nell’avere offerto la sua vita. Ha donato tutta se stessa a Dio, senza cercare di attirare l’attenzione di nessuno e abbandonandosi con amore e fiducia. È un gesto estremo, che dice la fede estrema in Dio. Se dai il superfluo, puoi confidare ancora su ciò che rimane. Ma se hai dato tutto l’unico su cui puoi confidare e Dio. Quella donna non sa dove finiranno i soldi, forse saranno disprezzati dal sacrestano del Tempio o serviranno per comprare il detersivo per i pavimenti… Poco importa, il suo gesto è libero, assoluto. Consegna a Dio tutti i suoi bisogni, lo inchioda alla sua responsabilità di Padre, fiduciosa che Lui si prenderà cura di lei. Il suo è un atto di fede bello e buono! E noi? Entrando qui stamattina ci siamo messi sotto lo sguardo di Dio. Egli guarda il nostro cuore e vede in realtà quello che siamo. Diciamocelo francamente, a chi di noi interessa contare solo per il Signore? Chi di noi si sforza di vivere una vera fede fatta di gesti veri e non una religiosità di facciata? È proprio vero quello che dice il card. Biffi che in noi ci sono «zone non evangelizzate» e dobbiamo sempre raddrizzare le vie dei nostri pensieri nascosti. Più superfluo diamo, più allarghiamo la distanza da Colui che non sa che farsene del nostro di più. Potremmo donare a Dio ciò che abbiamo per vivere, o meglio ancora ciò che ci fa vivere: le spinte, le passioni vitali. Non c’è vita insignificante o troppo piccola, nessuno è così povero da non potere donare la ricchezza delle esperienze, delle forze del cuore e delle energie della mente. Dio vuole il tuo cuore. Questa è l’unica moneta che vale. Non c’è solo bisogno di spiccioli. C’è in giro tanto bisogno di tenerezza, di sorrisi, di solidarietà, di vicinanza, magari di una visita o di telefonata rubata alla nostra fretta, di un’ora di compagnia sottratta al nostro tempo… Abbiamo tante cose da donare a chi ha meno di noi. Doniamo queste. Generosamente. Totalmente. A fondo perduto.


Trentaduesima Domenica per Annum

«Tutto quanto aveva per vivere» (Mc 12,44).

Gesù parlando ai suoi ,contrappone agli scribi, alle loro vesti lussuose, alle loro preghiere reclamizzate, alle loro offerte ostentate, una vedova che, in silenzio, offre al Tempio il niente che le era rimasto per vivere. Un gesto estremo che mostra una fede estrema. E noi siamo disposti a fidarci di Dio, a tal punto da donargli tutto e non solo il superfluo? Buona domenica.