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Non ora, non qui

I di Avvento – 28 Novembre ‘21

Prima lettura – Ger 33,14–16: Farò germogliare per Davide un germoglio di giustizia. Dal Salmo 24: A te, Signore, innalzo l’anima mia. Seconda lettura – 1 Ts 3,12-4,2: Il Signore renda saldi i vostri cuori al momento della sua venuta. Vangelo – Lc 21,25-28.34-36: La vostra liberazione è vicina.

Auguri, buon anno! Tranquilli non sono né ubriaco, né impazzito. Oggi è il capodanno dell’anno liturgico, dell’anno della Chiesa. Inizia oggi un nuovo anno in cui siamo invitati a tenere lo sguardo rivolto a Gesù, alla sua vita e al suo insegnamento. È bellissimo che inizi un nuovo anno. Abbiamo la possibilità di ripartire, di mettere nelle mani di Dio le nostre ferite, le nostre delusioni. Non importa quanta fragilità abbiamo sperimentato, non contano quante e quali siano state le delusioni accumulate, il Signore ci chiama a ripartire, a resettare la nostra vita. Il primo appuntamento del nuovo anno è l’Avvento (dal latino ad ventus, venuta, avvicinamento, arrivo), un tempo di quattro settimane per prepararsi al Natale, anche se guardandosi attorno sembra già Natale (luci, addobbi, spot di panettoni, torroni e pandori). È inutile dire che Natale non è questo! Natale sarà Natale solo quando cambierà le nostre scelte quotidiane, inciderà nella nostra vita. L’Avvento ha lo scopo di accompagnarci, di svegliarci, di renderci lucidi. Non possiamo correre il rischio di giungere al Natale quasi senza rendercene conto, finendo per lasciarci scivolare il tempo addosso. Nelle quattro settimane di Avvento, scopriremo che Dio non si è ancora stancato di noi e, se lo conosco un po’, non si stancherà tanto facilmente! L’Avvento è dunque un sostare in silenzio per capire una presenza. Ma l’uomo moderno è ancora capace di attesa? O forse si accontenta dell’immediato e del «tutto e subito»? Eppure, nonostante l’uomo di oggi sia consapevole delle proprie capacità, abbia ottenuto grandi vittorie e abbia visto realizzarsi tanti suoi progetti, per certi versi non si vedono grandi passi avanti. L’uomo continua a interrogare gli astri per conoscere il futuro, continua ad affidarsi ai maghi per risolvere i propri problemi o per avere supplementi di energia, continua a fuggire in mondi artificiali (droghe e alcool). È chiaro che l’uomo porta nel cuore un’attesa, ma forse non l’ammetterà nemmeno a se stesso e preferirà tenersi un vuoto incolmabile. L’uomo di oggi è come Didi e Gogo, i due mendicanti protagonisti dell’opera teatrale di Samuel Beckett, «Aspettando Godot». I due, di Godot, non sanno nulla, non lo conoscono neppure e non sanno quando avverrà l’incontro. Consumano la loro vita nell’attesa, annaspano tra speranze irrealizzabili e fanno progetti con la stessa consistenza dei castelli di sabbia che i bimbi fanno, d’estate, in riva al mare. Non è forse questa l’attesa dell’uomo d’oggi? Ma l’attesa del cristiano non è senza senso! Il cristiano deve «solo» riconoscere i segni della presenza di Dio nella storia, nel mondo, rifiutando chi propone salvezze «low cost». Il Vangelo di oggi, anche se non si direbbe, è improntato alla speranza. Gesù è nel Getsemani, sul monte degli Ulivi, proprio di fronte al Tempio. E mentre osserva da lì il luogo santo degli ebrei, risponde alle domande dei discepoli che sono preoccupati del futuro, vorrebbero sapere cosa accadrà, ma soprattutto quando. Scrutare il futuro, da che mondo è mondo è connaturale all’uomo. I Greci e i Romani interrogavano le Sibille, gli Ebrei cercavano di evocare i morti. Poi è stata la volta di Nostradamus e delle sue profezie. Anche oggi in molti si interrogano su «cosa sarà di noi»… E per darsi una risposta, parecchi consultano gli oroscopi (che non mancano in nessun quotidiano, tranne, ovviamente su Avvenire…), altri si rivolgono a maghi, cartomanti e imbroglioni affini. Ci sono poi diverse sette pseudo religiose che annunciano e riannunciano la fine del mondo a scadenze dilazionate. Di questi tempi va molto di moda la profezia dei Maya secondo cui il 21 dicembre prossimo, se tutto va bene (!), finirà il mondo. Ma torniamo al Vangelo… Per rispondere all’interrogativo dei discepoli, Gesù usa un linguaggio apocalittico, con immagini che hanno un sapore misterioso. Quando pensiamo a qualcosa di apocalittico, la nostra mente corre alla fine del mondo, magari con un delirio di fiamme, catastrofi e distruzione. In realtà il termine apocalittico indica un genere letterario, che va interpretato e che letteralmente significa rivelare, svelare qualcosa di nascosto. In altri termini, il desiderio di Gesù non è quello di spaventare, ma vuole, al contrario, lanciare un messaggio di speranza. Sta dicendo chiaramente ai suoi di non accampare scuse per sfuggire al presente, alle responsabilità, ma di vivere il presente con impegno e attenzione, senza farsi distrarre. «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria» (Lc 21,25-27). I discepoli si sentono dare una risposta che non è certo quella che desiderano. Vorrebbero che Gesù, calendario alla mano, desse un appuntamento certo, una scadenza certa con giorno e orario, così da potersi organizzare adeguatamente. Ci vorrebbe la data di scadenza: mondo da consumarsi preferibilmente entro… Il Maestro li istruisce a modo suo sull’evento che ricapitolerà tutta la storia e cioè il suo ritorno alla fine dei tempi. Loro chiedono notizie circa la fine del mondo, e lui risponde parlando del fine del mondo, del senso della storia. Gesù dice: «Cari amici, non preoccupatevi di quando sarà la fine, ma vivete il presente, nella certezza che questo mondo va verso un fine, non precipita nel nulla, ma nelle braccia di Dio. Il vostro problema non è il “quando”, ma il “come” attendere che questo mondo giunga alla fine» Gesù invita a evitare di cadere nella tentazione del piacere alienante, ma anche delle preoccupazioni, fosse anche per cose buone, che potrebbero farci perdere l’essenziale. «Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» (Lc 21,28). Non viviamo tempi facili, lo scoraggiamento è alle stelle, la violenza pure. Tra tredicesime che non vedremo, lavori precari e una dilagante povertà, tra affetti frantumati e paure di amare rischiamo di crollare e di arrenderci. Ci sentiamo come pesci fuor d’acqua. E Gesù sembra dirci: «Quando accade tutto questo, alzate lo sguardo. Non rimanete schiacciati. Riprendete in mano la vostra dignità. Non sentirti come un ergastolano che non vede speranza oltre il “fine pena mai”. Le fatiche e le prove della vita sono lì apposta per far crescere, possono diventare un trampolino di lancio, devono aiutare a conoscere il senso segreto delle cose». La fede non è né un’assicurazione né un anestetico. Credere non ci risparmia da sciagure e dolori, ma ci da una certezza: l’ultima parola spetta a Dio. Quando succedono cose storte, rischiamo di pensare che tutta la vita sia in quell’evento, in quella disgrazia e invece no: quello è solo un momento, una situazione, perché la vita è un’altra, ha un oltre. Tutto risulta relativo, rispetto a un assoluto, che è la certezza del ritorno di Gesù. A questo punto Gesù rincara la dose… «State attenti, Vegliate» (Lc 21,34.36). A ognuno il Signore chiede, fin da ora, di essere vigilanti, di saper leggere la realtà con lo sguardo rivolto all’eternità, sapere ritrovare una certa interiorità. Il Maestro vuole attirare la nostra attenzione sull’unico incontro sull’appuntamento, in fondo alla nostra storia personale, verso cui ciascuno di noi si sta muovendo, cioè quello con la morte. Gesù ci suggerisce di impostare la nostra vita come l’attesa di un incontro con Qualcuno. Ma noi attendiamo il Signore? Desideriamo veramente incontrarlo? Non rispondiamo subito, in maniera istintiva. Dalla risposta, vera, a questi interrogativi, deve nascere un comportamento quotidiano capace di rendere conto della speranza che ci abita. Il fatto che Gesù non ci dia una data precisa per la realizzazione delle promesse di Dio, non è un modo per tenerci sulle spine, anzi al contrario sembra dirci: «Invece di essere impazienti e lamentarvi, tenete occhi e cuore aperto, perché ogni giorno potrebbe essere quello giusto. State con il radar acceso, tenete gli occhi spalancati. State seduti sul bordo della sedia, pronti ad alzarsi e a pagare di persona. Cogliete anche il minimo segno di speranza». Ignoriamo il tempo della fine, ma viviamo il tempo in cui non dobbiamo restare seduti ad aspettare, ma in cui dobbiamo impegnarci a vivere, senza chiasso, con semplicità, il Vangelo nella vita quotidiana. Diceva Bonhoeffer che «l’attesa per le cose ultime, implica l’impegno per le penultime». Ma allora dobbiamo vivere, come si diceva una volta, col «memento mori – ricordati che devi morire»? No, tranquilli, anche perché mi pare sia un terrorismo spirituale che ci distrae dalla gioia di vivere. E poi se si vive senza peccato solo per paura di essere giudicati male da Dio, si finisce per non amare il Signore. E allora che si fa? Qualche anno fa Vasco Rossi cantava: «voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha» (Vasco Rossi, Un senso). E qualche secolo prima Shakespeare nel suo Macbeth faceva dire a uno dei personaggi: la vita «È un racconto | narrato da un idiota, pieno di suoni e furore, | significante niente» (William Shakespeare, Macbeth, atto V, scena V, vv. 17-27). Infine nel suo romanzo Il tunnel, lo scrittore tedesco Friedrich Duerrematt descriveva la vita come un treno con il freno di emergenza rotto e la cabina di guida vuota, che precipita verso il centro della terra. In altri termini la vita è un precipitare verso il baratro. Dio, se esiste, ha abbandonato la cabina di guida del mondo e l’uomo si ritrova a trascinare una esistenza senza senso, senza speranza. Ma è davvero questo la vita, solo una folle, assurda corsa verso lo sfacelo totale? Per noi cristiani, la vita, la storia hanno un senso e ci è stato rivelato proprio da Gesù: sarà lui a chiudere il capitolo della nostra vicenda terrena e aprire quello definitivo della vita eterna. Dopo la soglia dell’ultima pagina del calendario della storia, non ci sarà il nulla, ma l’eternità di Dio. Ricordiamoci di essere, finché le stelle staranno in cielo (Cfr. Kristin Harmel) in una «collocazione provvisoria» (Cfr. Tonino Bello), siamo sulla terra, ma siamo fatti di cielo e per il cielo. Non rifuggiamo la vita, ma non restiamole nemmeno aggrappati. Siamo fatti per altro e per un oltre. Quello per cui vale veramente la pena vivere non è ora, non è qui.


Collocazione provvisoria, finché le stelle staranno in cielo

XXXIII per Annum – 14 novembre ‘21

Prima lettura – Dn 12,1-3: In quel tempo sarà salvato il tuo popolo. Dal Salmo 16: Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio. Seconda lettura – Eb 10,11-14.18: Cristo ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati. Vangelo – Mc 13,24-32: Il Figlio dell’uomo riunirà i suoi eletti.

La scorsa domenica, se vi ricordate, avevamo lasciato Gesù al tempio di Gerusalemme, nel cortile delle «vedove», che osservava la sfilata dei pellegrini dinanzi al tesoro del tempio. E se vi ricordate ci aveva dato come esempio da seguire non quelli che si proponevano come tali, cioè gli scribi con gli abiti firmati e con le preghiere reclamizzate, ma una povera vedova, capace di affidarsi al Signore e di fidarsi totalmente di lui. Oggi Gesù è nel Getsemani, sul monte degli Ulivi, proprio di fronte al Tempio. E mentre osserva da lì il luogo santo degli ebrei, risponde alle domande dei discepoli che sono preoccupati del futuro, vorrebbero sapere cosa accadrà. Scrutare il futuro, da che mondo è mondo è connaturale all’uomo. I Greci e i Romani interrogavano le Sibille, gli Ebrei cercavano di evocare i morti. Poi è stata la volta di Nostradamus e delle sue profezie. Anche oggi in molti si interrogano su «cosa sarà di noi»… E per darsi una risposta, parecchi consultano gli oroscopi (che non mancano in nessun quotidiano, tranne, ovviamente su Avvenire…), altri si rivolgono a maghi, cartomanti e imbroglioni affini. Ci sono poi diverse sette pseudo religiose che annunciano e riannunciano la fine del mondo a scadenze dilazionate. Di questi tempi va molto di moda la profezia dei Maya secondo cui il 21 dicembre prossimo, se tutto va bene (!), finirà il mondo. Ma torniamo al Vangelo… Per rispondere all’interrogativo dei discepoli, Gesù usa un linguaggio apocalittico, con immagini che hanno un sapore misterioso. Quando pensiamo a qualcosa di apocalittico, la nostra mente corre alla fine del mondo, magari con un delirio di fiamme, catastrofi e distruzione. In realtà il termine apocalittico indica un genere letterario, che va interpretato e che letteralmente significa rivelare, svelare qualcosa di nascosto. In altri termini, il desiderio di Gesù non è quello di spaventare, ma vuole, al contrario, lanciare un messaggio di speranza. Sta dicendo chiaramente ai suoi di non accampare scuse per sfuggire al presente, alle responsabilità, ma di vivere il presente con impegno e attenzione, senza farsi distrarre. «Dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria» (Mc 13,24-26). I discepoli si sentono dare una risposta che non è certo quella che desiderano. Vorrebbero che Gesù, calendario alla mano, desse un appuntamento certo, una scadenza certa con giorno e orario, così da potersi organizzare adeguatamente. Ci vorrebbe la data di scadenza: mondo da consumarsi preferibilmente entro… Il Maestro li istruisce a modo suo sull’evento che ricapitolerà tutta la storia e cioè il suo ritorno alla fine dei tempi. Loro chiedono notizie circa la fine del mondo, e lui risponde parlando del fine del mondo, del senso della storia. Gesù dice: «Cari amici, non preoccupatevi di quando sarà la fine, ma vivete il presente, nella certezza che questo mondo va verso un fine, non precipita nel nulla, ma nelle braccia di Dio. Il vostro problema non è il “quando”, ma il “come” attendere che questo mondo giunga alla fine». A questo punto il Maestro fa un riferimento agricolo: «Dalla pianta di fico imparate la parabola» (Mc 13,28). Non so se avete presente il fico… Ha un tronco grigiastro e per buna parte dell’anno è spoglio, senza foglie. Solo durante la primavera e l’estate si ricopre di foglie ampie come una mano aperta. All’ombra di queste foglie, maturano frutti carnosi e dolcissimi. Gesù dice ai suoi: «Così come i contadini sanno riconoscere che arriva l’estate, dal mutare della vegetazione del fico, così dovete diventare capaci di riconoscere i segni dei tempi, dovete essere capaci di speranza. Attorno potrà pur esserci desolazione, ma il vostro sguardo dovrà cogliere la foglia tenera sul ramo del fico, dovrà cogliere la certezza che il futuro, anche se il presente è difficile, avrà un altro volto». «Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre» (Mc 13,32). Il fatto che Gesù non ci dia una data precisa per la realizzazione delle promesse di Dio, non è un modo per tenerci sulle spine, anzi al contrario sembra dirci: «Tenete occhi e cuore aperto, perché ogni giorno potrebbe essere quello giusto. State con il radar acceso, tenete gli occhi spalancati. State seduti sul bordo della sedia, pronti ad alzarsi e a pagare di persona. Cogliete anche il minimo segno di speranza». Ignoriamo il tempo della fine, ma viviamo il tempo in cui non dobbiamo restare seduti ad aspettare, ma in cui dobbiamo impegnarci a vivere, senza chiasso, con semplicità, il Vangelo nella vita quotidiana. Diceva Bonhoeffer che «l’attesa per le cose ultime, implica l’impegno per le penultime». Ma allora dobbiamo vivere, come si diceva una volta, col «memento mori – ricordati che devi morire»? No, tranquilli, anche perché mi pare sia un terrorismo spirituale che ci distrae dalla gioia di vivere. E poi se si vive senza peccato solo per paura di essere giudicati male da Dio, si finisce per non amare il Signore. E allora che si fa? Qualche anno fa Vasco Rossi cantava: «voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha» (Vasco Rossi, Un senso). E qualche secolo prima Shakespeare nel suo Macbeth faceva dire a uno dei personaggi: la vita « È un racconto | narrato da un idiota, pieno di suoni e furore, | significante niente » (William Shakespeare, Macbeth, atto V, scena V, vv. 17-27). Per noi cristiani, la vita, la storia hanno un senso e ci è stato rivelato proprio da Gesù: sarà lui a chiudere il capitolo della nostra vicenda terrena e aprire quello definitivo della vita eterna. Dopo la soglia dell’ultima pagina del calendario della storia, non ci sarà il nulla, ma l’eternità di Dio. Ricordiamoci di essere, «finché le stelle staranno in cielo» (Cfr. Kristin Harmel) in una «collocazione provvisoria» (Cfr. Tonino Bello), siamo sulla terra, ma siamo fatti di cielo e per il cielo. Non rifuggiamo la vita, ma non restiamole nemmeno aggrappati.


Trentatreesima Domenica per Annum

«Nessuno lo sa» (Mc 13,32).

I discepoli chiedono a Gesù quando finirà il mondo. Vorrebbero la data di scadenza: “Mondo da consumarsi preferibilmente entro…”. Gesù risponde dicendo non QUANDO finirà, ma COME prepararsi a quel giorno: tenendo cuore e occhi aperti perché ogni giorno potrebbe essere quello giusto. Siamo in collocazione provvisoria perché pur essendo sulla terra, siamo fatti di cielo e per il cielo. Buona domenica.