Archivi del giorno: 10 settembre 2022

Ventiquattresima Domenica per Annum

«Il padre gli corse incontro» (Lc 15,20).

Gesù è criticato dai capi  d’Israele per le sue frequentazioni e per il suo feeling con i peccatori. Perché perdere tempo con gente che non cambierà mai? Gesù non fa polemica, ma racconta tre parabole (pecorella smarrita, dracma perduta e Padre sprecone di misericordia) per dire che Dio ha un debole per i peccatori e ha sullo stomaco chi si sente il primo della classe. A Dio non interesse sapere ciò che siamo stati o abbiamo combinato, ma quello che col suo aiuto possiamo diventare o fare. Buona domenica.


Non avere Dio significa non avere perdono

XXIV per Annum – 11 settembre 2022

Prima lettura – Es 32,7-11.13-14 – Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo. Dal Salmo 50: Ricordati di me, Signore, nel tuo amore. Seconda lettura – 1Tm 1,12-17 – Cristo è venuto per salvare i peccatori. Vangelo – Lc 15,1-32 – Ci sarà gioia in cielo per un solo peccatore che si converte.

Il Vangelo di oggi ci dona tre splendide parabole sulla Misericordia di Dio. La pagina del Vangelo che le contiene si apre così: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”» (Lc 15,1). Lo stare di Gesù con i peccatori suscita molte preoccupazioni e altrettante mormorazioni tra i farisei e gli scribi che si vantano di essere giusti agli occhi di Dio e addirittura di poter vantare qualche credito dinanzi a lui. «Perché perdere tempo con gente che non potrà mai cambiare? Che cosa c’entra Dio con i peccatori?» queste e altre le domande che, probabilmente annebbiano cuore e mente di scribi e farisei. I poveri capi religiosi dei Giudei si scandalizzano e disapprovano il feeling che c’è tra Gesù e i peccatori… Non sanno che si scandalizzano delle Misericordia di Dio. Nel mondo, da che mondo e mondo, ci sono due categorie di persone: i peccatori e coloro che si ritengono giusti. I primi si ritengono senza diritti, miseri, e trovano così il giusto modo per accostarsi alla misericordia di Dio. La conversione di chi si ritiene giusto invece risulta più difficile. Il loro ritenersi privi di miseria, gli preclude l’accesso alla misericordia. Gesù, non entra nel dibattito, ma spiega e giustifica la preferenza di Dio per i peccatori, raccontando quale e quanto grande sia l’Amore di Dio. L’Amore di Dio è capace di attendere, di perdonare, di placare i rancori, di ridare speranza ai senza speranza. È capace di vederti non per quello che uno è stato, ma per quello che può diventare. Dio, dice Gesù, non è solo disponibile a perdonare chi ritorna a lui, ma va anche, e affannosamente, alla ricerca di chi è perduto e non si dà pace finché non ritrova chi ha smarrito. Una ricerca ostinata, la sua. Ma guardiamo le parabole… «Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una , non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?» (Lc 15,4). La risposta logica a questa domanda di Gesù sarebbe: «Nessuno!». Nessuno può essere così incosciente da mettere a repentaglio la vita di un intero gregge per andare alla ricerca della pecora che si smarrisce. Si può essere dispiaciuti, ma non si può certo perdere tempo a cercare una pecora. E poi se mai la si ritrovasse bisognerebbe abbondare con le bastonate per insegnarle la lezione! E invece… Gesù ci dice che Dio ha difficoltà con i conti, avrebbe bisogno di alcune ripetizioni in matematica. Per Dio, infatti, 99 vale meno di 1! Dio perde la testa per uno solo. Noi non siamo per lui una massa indistinta, ma singoli. Dio è più soddisfatto per la conversione di un peccatore che di novantanove persone che si ritengono giuste, di novantanove «perfettivi», di novantanove primi della classe. La logica di Dio non segue il buonsenso o la logica umana. Dio n on accetta che qualcuno, uscito dalle sue mani vada perduto. E, addirittura, anche il peccato può diventare un’occasione per l’incontro che salva. «Quale donna se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova?» (Lc 15,8). Una moneta, una dracma, valeva un giorno di lavoro. È giustificato quindi l’entusiasmo della donna che dopo avere iniziato e portato a termine le ricerche, salta di gioia per averla ritrovata. E Gesù aggiunge: «Tanto più grande sarà la gioia di Dio per il ritrovamento di un peccatore». Possiamo tornare da ogni perdizione perché Dio è infelice senza di noi! La terza parabola è quella da sempre chiamata del «figliol prodigo» ma che in realtà andrebbe chiamata del «padre sprecone di misericordia». «Un uomo aveva due figli» (Lc 15,11), così inizia la parabola. Un uomo ha due figli. È un uomo ricco e i figli sono già adulti. I due figli sono accomunati dalla poca felicità e dalla stessa pessima idea del padre. Il primo lo immagina come un concorrente, uno che ti limita nella tua realizzazione e che è meglio ritenere morto per potere avere libertà d’azione. L’altro lo vede come uno da temere, da tenere buono, trasformandosi in un servo, convinto di accumulare premi e meriti. «Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”» (Lc 15,12). Il figlio minore non ne può più di quel padre che gli sta troppo col fiato sul collo e decide di andarsene di casa, perché gli manca l’aria, non vive più. Ma non può andare via a mani vuote e chiede di avere l’eredità. Sappiamo bene che all’eredità di qualcuno si accede solo dopo che quel qualcuno è morto. Quindi, chiedendo l’eredità, il giovane sta dicendo al padre: «Tu per me sei morto!». La richiesta del figlio è sconcertante, ma il padre non si scompone. Acconsente, lascia che il figlio lo umili e calpesti il suo amore. Lascia che il figlio segua i suoi sogni e i suoi desideri, anche se è certo che si farà del male. Dio ci considera adulti, affida alle nostre mani le decisioni, non si sostituisce alle nostre scelte. «Ed egli divise tra loro le sue sostanze» (Lc 15,12). Il padre fa una cosa non giusta. Secondo la Legge era il primogenito a ereditare due terzi del patrimonio paterno, mentre gli altri figli dovevano accontentarsi della restante parte, ma solo alla morte del genitore. «Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla» (Lc 15,13-16). Il giovane va via, in cerca di libertà. Va in un paese lontano, perché tanto più sarà grande la distanza dal padre, tanto più sarà grande la sua libertà. Ma le cose non vanno come credeva. Il suo sogno si interrompe e si risveglia in mezzo ai porci. Il suo menù non prevede più il pane della casa del padre, ma le carrube che non riesce manco a mangiare perché la voracità dei maiali è tanta. «Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre» (Lc 15,17-20). Contesto le interpretazioni buoniste della parabola. Il figlio non ha un moto di conversione, ma semplicemente prende coscienza della sua condizione penosa. È caduto veramente in basso. È un grande opportunista e agisce sempre, soltanto e unicamente per interesse. È l’interesse che determina il suo modo di vivere, di pensare, di essere. Per interesse ha lasciato la casa del padre, per interesse adesso vuole tornare. Non gli manca il padre, ma il pane di suo padre. Non vuole un padre, si accontenta di un padrone, purché non manchi il cibo. Si prepara il suo bel discorsetto: riuscirà anche stavolta a prendere in giro quel tonto, quello scemo di suo padre, pensa tra sé. «Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa» (Lc 15,21-24). Come nei migliori film ecco il colpo di scena: il padre lo sta aspettando! Ha rispettato il figlio nella sua ricerca della felicità e della libertà, ma non lo ha dimenticato. Il padre è come Dio, non ha figli da perdere o da buttare. Il padre non dà al figlio neanche il tempo di interpretare il monologo che si era inventato per chiedere il perdono, ma gli concede il perdono correndogli incontro, restituendogli la dignità di uomo e di figlio. Non importa il motivo per cui ritorna. Non lo sottopone a un esame per stabilire il grado di pentimento. Basta che ritorna. Il figlio, travolto da questa misericordia sovrabbondante, comprende che il padre, non solo lo ha sempre atteso, ma lo ha continuato ad amare, anche quando lui lo odiava. Solo allora nasce in lui il pentimento, dinanzi a quell’amore infinito e fedele del padre, che lo ha spiazzato. Solo allora capisce che il suo vivere lontano da casa del padre è stato un vivere lontano dal senso vero della sua vita. È un nuovo inizio, c’è un’altra chance per lui, una nuova opportunità. «C’è una strada in ogni uomo, un’opportunità» (Adriano Celentano, Ti penso e cambia il mondo). «Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino
a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare» (Lc 15,25-28). Il figlio maggiore esplode con rabbia e con risentimento. Come dargli torto? È sempre stato a casa, vivendo da schiavo per dare piacere e soddisfazione a suo padre e non ha mai avuto in cambio nemmeno un «Grazie!». Ora arriva il figlio scapestrato, il figlio schifoso, il figlio che lo ha ritenuto morto e il padre si mette a fare festa. Questo figlio è proprio come gli scribi e i farisei che mormorano contro Gesù. È rimasto a casa, ha cercato di essere fedele, ma con l’animo del servo soggetto a un padrone. «Suo padre allora uscì a supplicarlo» (Lc 15,28). Il padre ripete quanto fatto in precedenza per il figlio minore. Non vuole perdere proprio nessuno. La parabola non ha una conclusione. Non sappiamo cosa sia accaduto, se il fratello maggiore sia entrato in casa, se tra i due fratelli ci sia stato un abbraccio… Il finale è aperto. Non c’è l’happy end, l’«E vissero felici e contenti» come ogni favola che si rispetti. Ognuno di noi può e deve entrare in questa storia per completarla, per scrivere il finale. Siamo tutti un po’ come il figlio minore, un po’ come il figlio maggiore. Possiamo guardare a Dio come a uno che ci limita nella libertà (Cfr. figlio minore), o come uno da tenere a bada, facendo sacrifici, con una fede ossequiosa, ma che non ci fa esplodere il cuore di gioia (Cfr. figlio maggiore). Oppure… Riconoscere in Dio un Padre che scruta l’orizzonte, che corre, abbraccia e bacia, che non rinfaccia e non chiede ragione delle nostre scelte, che non accusa, ma restituisce dignità. Che vede non quello che siamo stati, ma quello che possiamo e dobbiamo diventare. Dio è così! Il Dio dei cristiani è differente (come la banca). È esagerato, eccessivo, sprecone… Ma non vuole perdere nessuno. In un libro di Faletti, qualche giorno fa leggevo il dialogo tra Frank, uno dei protagonisti del romanzo e un sacerdote, padre Kenneth: «Io non credo in Dio. E questo non è un vantaggio. Perché questo significa che non c’è nessuno che mi perdona per il male che faccio» (Giorgio Faletti, Io Uccido). Sono parole terribili, dolorose. Ma portatrici di una immensa verità. Non avere Dio significa non avere perdono. Noi cristiani siamo fortunati, abbiamo un Dio disposto a perdonarci per tutto il male che facciamo.