Togliamoci le facce falsamente serie che si indossano alle commemorazioni

Articolo pubblicato sul numero 494 del “Settimanale di Bagheria”

http://www.bagheriainfo.it/news.asp?id=3146

Forse ognuno di noi si ricorderà dove era e cosa stava facendo quel sabato 23 maggio 1992, quando in brevissimo tempo è rimbalzata in tutto il mondo la notizia che la Mafiaaveva regolato, a modo suo con 500 kgdi tritolo, il conto che aveva in sospeso con Giovanni Falcone, il magistrato palermitano capace, insieme al pool antimafia guidato da Antonino Caponetto, di colpire duramente Cosa Nostra. Falcone sapeva benissimo di dover morire: «Il mio conto con Cosa nostra resta aperto. Lo salderò con la mia morte, naturale o meno. Tommaso Buscetta, quando iniziò a collaborare, mi aveva messo in guardia: prima cercheranno di uccidere me, ma poi verrà il suo turno. Fino a quando ci riusciranno». E quel sabato pomeriggio di fine maggio del ’92 ci sono riusciti. Sono passati venti anni dalla strage di Capaci nella quale persero la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro. Il Mondo è notevolmente cambiato, nel frattempo, anche se le ingiustizie di sempre sembrano non essere scalfite dallo scorrere del tempo. Il giudice era appena giunto da Roma e stava percorrendola A29 direzione Palermo, all’altezza dello svincolo di Capaci-Isola delle Femmine, quando cinque quintali di tritolo, posizionati in una galleria scavata sotto la strada, fecero esplodere letteralmente l’asfalto, producendo un cratere di detriti e lamiere. Delle tre macchine della scorta la prima venne scaraventata sulla carreggiata opposta, uccidendo sul colpo i tre agenti di scorta. La seconda,la Cromabianca guidata da Falcone, si schiantò contro il muro di cemento e detriti prodotti dall’esplosione. Solo feriti gli occupanti della terza macchina della scorta e una ventina di passanti che si trovavano a transitare. Il giudice e sua moglie, sprovvisti di cintura di sicurezza, vennero sbalzati contro il parabrezza con estrema violenza. Falcone, a cui furono riscontrate solo ferite lievi, morì durante il trasporto all’ospedale. Dei funerali, celebrati a Palermo, nella Chiesa di S. Domenico, probabilmente ci ricordiamo le cinque bare avvolte nella bandiera tricolore, con il cappello blu della Polizia sui feretri di Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani e con il berretto e la toga rossa e nera dei giudici di Stato sulle bare di Francesca Morvillo e Giovanni Falcone. Forse ci ricordiamo le parole bagnate di lacrime di Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani: «Chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso. Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare… Ma loro non cambiano… loro non vogliono cambiare…». Forse ci ricordiamo l’omelia del Cardinale Pappalardo urlata con la voce secca, tagliente, rabbiosa e veemente da comizio, in cui non pronunciò mai la parola perdono, ma in cui tuonò il più duro anatema della Bibbia: «A me la vendetta, proclama il Signore» e in cui bollò i mafiosi come altra cosa rispetto alla comunità dei figli di Dio collocandoli nella «Sinagoga di Satana» e in cui, ancora, alludeva apertamente a una talpa degli assassini dentro al Palazzo, «Ma è certamente motivo, e lo sappiamo, di particolare sgomento l’avere appreso che il giudice Falcone si muoveva in via e con mezzi che dovevano rimanere coperti dal più sicuro riserbo. Chi li conosceva? Chi li ha rivelati ai nemici dei giudici? Mandante ed esecutori». Forse ci ricordiamo le minacce a pugni levati, i cori di insulti, il pianto gridato dei poliziotti, l’ingresso e la fuga dei politici attraverso la sacrestia, incalzati dal rumoreggiare della piazza, «Buffoni». «Assassini». «Complici». Forse ci ricordiamo la solita Palermo degli onesti. Quella Palermo che ha cominciato nel 1979 ad andare ai funerali. E Giuliano e Costa e Terranova e Mattarella e Basile e Chinnici eLa Torree dalla Chiesa e d’Aleo. Forse ci ricordiamola Palermodalla faccia pulita. Sempre la stessa. Con lo stesso dolore nel petto, ma gli occhi definitivamente asciutti. Ma forse in pochi, in pochissimi, ci ricordiamo le parole di Ilda Boccassini, magistrato della Procura di Milano, amica di Giovanni Falcone, che ebbe il compito di commemorare il giudice nel Palazzo di Giustizia del capoluogo lombardo, nelle stesse ore in cui a Palermo si celebravano le esequie dei morti nella Strage di Capaci. Piangeva e accusava, la Boccassini. Perquindici minuti sulla platea scese il ghiaccio. Sui colleghi, sui vertici della procura, Ilda Boccassini scaraventò l’accusa di avere isolato e insultato Giovanni Falcone, di portare una parte delle colpe della sua morte. Indicava con nome e cognome i giudici che, secondo lei, non avevano il diritto di piangere Falcone. «Io sono forse l’unica amica che Giovanni ha avuto qui. Sabato sono andata a Palermo ma l’ho fatto alla chetichella, tardi, quando tutti se n’erano andati. E domenica mattina sono tornata presto all’obitorio, perché volevo essere sola come era stato solo Giovanni. Non volevo vedere lo scempio che si sta verificando oggi a Palermo, con i funerali di Stato. Voi avete fatto morire Giovanni Falcone, voi con la vostra indifferenza, le vostre critiche. Non c’è stato uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità. Eppure le cattedrali e i convegni, anno dopo anno, sono sempre affollati di amici che magari, con Falcone vivo, sono stati i burattinai o i burattini di qualche indegna campagna di calunnie e insinuazioni che lo ha colpito. E un conto è criticare la superprocura, un conto è dire che Falcone era un venduto, una persona non più libera dal potere politico. Giovanni aveva scelto l’unica strada per continuare a aiutare i colleghi, andando al ministero per fare sì che si realizzasse quel progetto rivoluzionario di una struttura unica per combattere la mafia. I colleghi che stamattina sono a Palermo fino all’altro ieri dicevano di diffidare di Giovanni. C’è tra voi chi diceva che le bombe all’Addaura le aveva messe Giovanni o chi per lui. Abbiate il coraggio di dirlo adesso, e poi voltiamo pagina. Se pensate che non era più autonomo, libero, indipendente, perché andate ai suoi funerali? Se i colleghi pensano che in questi due anni Giovanni Falcone si sia venduto lo dicano adesso, vergogniamoci e voltiamo pagina». Dopo 20 anni oggi si conoscono solo gli esecutori materiali dell’omicidio e non i mandanti, da ricercare nelle trame oscure della collusione tra Stato e Mafia sulla quale stava indagando lo stesso Falcone. Una delle pagine peggiori della storia italiana, una vicenda che segna la fragilità della magistratura, molto spesso abbandonata a se stessa in quelli che sono territori di guerra e morte. In questi anni, nonostante le commemorazioni e le manifestazioni continue, che avverranno anche quest’anno, l’impegno per cancellare questa figura dalla memoria storica è stato lento e costante. In particolare le istituzioni e le più alte cariche dello Stato replicano da tempo gesti e parole automatici senza troppa convinzione. Credo che la ragione vada rintracciata nell’ipocrisia di un Paese dove chi muore diventa sempre il migliore, nel senso di colpa degli italiani, nella cattiva coscienza della politica, di destra di sinistra, di sopra e di sotto. Né il Paese, né la società civile, né la magistratura, né il potere, quale ne sia il segno politico, hanno saputo accettare le idee di Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte, se ne appropriano a piene mani, deformandole secondo la convenienza del momento. Non c’è stato uomo in Italia che abbia accumulato più sconfitte di Falcone. Bocciato come consigliere istruttore. Bocciato come procuratore di Palermo. Bocciato come candidato al Csm, e sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia, se non fosse stato ucciso. Falcone, in vita, fu come Aureliano Buendìa, uno dei protagonisti di Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez, che «dette trentadue battaglie e le perdette tutte». Che fare allora? Innanzitutto mettiamo al bando l’ipocrisia, togliamoci le facce falsamente serie che si indossano alle commemorazioni. P. Pino Puglisi, altro caduto nell’assurda guerra tra Mafia e Stato, diceva: «È importante parlare di Mafia, soprattutto nelle scuole, per combattere contro la mentalità mafiosa, che è poi qualunque ideologia disposta a svendere la dignità dell’uomo per soldi. Non ci si fermi però ai cortei, alle denunce, alle proteste». Il compito di tutti è quello di mantenere alto il ricordo e l’impegno, muovendoci e spingendoci all’azione, senza subire, ma reagendo contro chi ci soffoca i sogni. Cominciamo da noi. Cominciamo a toglierci dalla testa certe mentalità, che sono solo l’anticamera alla Mafia. Smettiamola di restare riconoscenti in eterno a Tizio o Caio che, magari, ci hanno fatto saltare il turno in una pubblica amministrazione, consentendoci di avere come concessa qualcosa che ci spetta di diritto. Come ripeteva spesso Giovanni Falcone: «Il vigliacco muore più volte al giorno, il coraggioso una volta sola, senza farsi condizionare dalla paura».

Informazioni su don Angelo Tomasello

Scrivo, ma non sono uno scrittore. Leggo, ma non sono un lettore. Sogno, ma non sono un sognatore. Ho incontrato Dio e proprio non mi riesce di smettere di cercarlo. Vedi tutti gli articoli di don Angelo Tomasello

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