V Domenica di Pasqua – 28 Aprile 2024
Prima lettura – At 9,26-31: Barnaba presenta Paolo agli apostoli. Dal Salmo 21: A te la mia lode, Signore, nella grande assemblea. Seconda lettura – 1Gv 3,18-24: Questo è il suo comandamento: che crediamo e amiamo. Vangelo – Gv 15,1-8: Chi rimane in me e io in lui porta molto frutto.
Il tempo Pasquale corre velocemente e siamo ormai a un passo dalla solennità di Pentecoste che è punto di arrivo della «cinquantina pasquale». Domenica scorsa, Gesù si presentava come il buon pastore. Questa domenica passiamo dalla pastorizia all’agricoltura, visto che il Maestro di Nazareth si definisce una vite. «Io sono la vite vera» (Gv 15,1). Come già domenica scorsa, Gesù usa un’immagine, forse per noi poco chiaro, o meglio poco immediata, ma per i suoi interlocutori, per la gente del suo tempo, è un’immagine chiara, limpida. Quella della «vite» è un’immagine di derivazione biblica. Nell’Antico Testamento, infatti, Israele è definito più volte vite la vite di Dio, la vigna di JHWH. Israele è vigna infeconda, immune alle cure di Dio. JHWH non sa più che inventarsi per fare portare frutto alla sua vigna/vite. Gesù ripropone, quindi, quest’immagine, familiare ai suoi ascoltatori, ma apporta delle piccole variazioni. La vite non è più Israele,a Gesù stesso. I tralci sono tutti gli uomini. E Dio Padre continua a svolgere il suo lavoro di agricoltore. «Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto» (Gv 15,2). A quanto pare Dio ha proprio il pollice verde, taglia, pota… Sa far tutto! Ma tagliare e potare non sono la stessa cosa? No, non proprio… Tagliare è un’operazione che si fa tra marzo e aprile ed è la cosiddetta «arrimunnata», cioè si taglia e si toglie tutto ciò che è morto, tutto ciò che finirebbe per far danno (i «sancisuca», i «sarvaggi»), i rami infruttuosi, i tralci che potrebbero diventare intralcio per la vita della pianta. Potare, invece, è un’operazione che si fa ad agosto ed è un’azione di purificazione. Viene tolto il superfluo (cfr. fichi d’India, i «scuzzulati»). È un’operazione dolorosa per la pianta, che «piange», fa scorrere la linfa dal taglio, ma è un gesto necessario, perché permetterà alla pianta di concentrarsi «solo» sui frutti futuri. «Rimanete in me e io in voi» (Gv 15,4). Gesù ripete per sette volte in quattro versetti, la parola rimanere. Il Signore è stato colpito da arteriosclerosi? No, certamente! Semplicemente ci sta dicendo quale è la parola chiave del testo, la parola che ci permette di capire tutto. Non so voi, ma sentire questa parola, ripetuta più volte, mi provoca il brivido di una carezza, la certezza del conforto. Gesù non sta parlando di una frequentazione casuale («Ogni tanto fatevi vedere!»), ma di un qualcosa che dice relazione e intimità. Quando invitiamo qualcuno a rimanere a cena a casa nostra, non è che dopo un minuto lo cacciamo via, anzi, cerchiamo di metterlo a suo agio, cerchiamo di prendere, di dedicargli, tutto il tempo necessario, perché nella nostra casa si senta accolto. Attenzione però a pensare che Gesù ci stia proponendo un’esperienza mistica, un’esperienza in cui dobbiamo stare a mezzo metro da terra. Il Signore sta semplicemente richiamando la nostra attenzione su un possibile rischio, quello di saper parlare di Dio, di essere laureati nelle cose di Dio, ma non essere capaci di fare esperienza di Dio, di non riuscire a parlare con Lui. Gesù non è solo un maestro spirituale, tra i tanti che sono esistiti a ogni latitudine religiosa, ma è Colui che ci insegna una relazione nuova con Dio. Per essere discepoli di Cristo, per essere cristiani, occorre vivere di Lui, vivere con Lui. Può succedere che Dio lo diamo per scontato, come, per esempio, diamo per scontato il respirare… E invece abbiamo bisogno del Signore allo stesso modo in cui abbiamo bisogno del respirare. «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me» (Gv 15,4). Anche chi non ha studiato botanica o agraria, anche chi non è contadino o ha il pollice verde, sa che il tralcio, o un ramo qualsiasi, da soli, staccati dalla vite, dal tronco, non possono portare frutto, anzi si seccano e muoiono. Così è la nostra vita senza Cristo, destinata a morire secca e infruttuosa. «Chi rimane in me porta molto frutto» (Gv 15,5). Il rimanere è frutto dell’abbraccio di due libertà, la nostra e quella di Dio. Sono due mani che si stringono. Ma la cosa ancora più interessante è che il nostro cammino di fede non è, come siamo soliti vederlo, un progressivo avvicinarsi a Dio, perché a Lui siamo già attaccati, ma il nostro itinerario spirituale, è un decidersi, un lavorare per restare attaccati a Lui. «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). Potrebbe apparire una condanna, ma in realtà non lo è. Si tratta di una constatazione. Gesù ci sta dando un suggerimento, un aiutino, a noi che siamo in ricerca di senso. Solo in Lui possiamo ogni cosa, dirà Paolo nella Lettera ai cristiani di Filippi (Cfr. Fil 4,13). «Chiedete quello che volete e vi sarà fatto» (Gv 15,7). Per la serie «ogni vostro desiderio è un ordine». In realtà, che mi risulti, non è che Dio sia poi così… Uno prega, chiede, fa rosari e coroncine, ma lui non ci esaudisce… Gesù non dice: «Fate i capricci e vi accontento», ma ci dà la «conditio sine qua non» che è il «restare» in Lui. Se stiamo in Lui, se in Lui rimaniamo, certamente finiremo per chiedere solo ciò che è giusto chiedere e che Dio ci concederà. L’immagine della vite e dei tralci è meno tenera forse di quella del buon pastore, ma certamente più forte e incisiva. Esistono pecore senza pastori e pastori senza pecore, ma non esistono viti senza tralci e tralci senza viti. Diceva Agostino: «Aut vitis, aut ignis – O la vite o il fuoco», senza mezze misure! Con questa immagine il Signore ci sta dicendo che per vivere, per portare frutto, abbiamo bisogno di Lui, ma ci dice pure, e questo è a dir poco rivoluzionario, che Lui, Dio, ha bisogno di noi per vivere, per fare frutto, per scrivere altre pagine veramente interessanti nella storia dell’umanità.