Un Dio con il pollice verde

V Domenica di Pasqua – 28 Aprile 2024

Prima lettura – At 9,26-31: Barnaba presenta Paolo agli apostoli. Dal Salmo 21: A te la mia lode, Signore, nella grande assemblea. Seconda lettura – 1Gv 3,18-24: Questo è il suo comandamento: che crediamo e amiamo. Vangelo – Gv 15,1-8: Chi rimane in me e io in lui porta molto frutto.

Il tempo Pasquale corre velocemente e siamo ormai a un passo dalla solennità di Pentecoste che è punto di arrivo della «cinquantina pasquale». Domenica scorsa, Gesù si presentava come il buon pastore. Questa domenica passiamo dalla pastorizia all’agricoltura, visto che il Maestro di Nazareth si definisce una vite. «Io sono la vite vera» (Gv 15,1). Come già domenica scorsa, Gesù usa un’immagine, forse per noi poco chiaro, o meglio poco immediata, ma per i suoi interlocutori, per la gente del suo tempo, è un’immagine chiara, limpida. Quella della «vite» è un’immagine di derivazione biblica. Nell’Antico Testamento, infatti, Israele è definito più volte vite la vite di Dio, la vigna di JHWH. Israele è vigna infeconda, immune alle cure di Dio. JHWH non sa più che inventarsi per fare portare frutto alla sua vigna/vite. Gesù ripropone, quindi, quest’immagine, familiare ai suoi ascoltatori, ma apporta delle piccole variazioni. La vite non è più Israele,a Gesù stesso. I tralci sono tutti gli uomini. E Dio Padre continua a svolgere il suo lavoro di agricoltore. «Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto» (Gv 15,2). A quanto pare Dio ha proprio il pollice verde, taglia, pota… Sa far tutto! Ma tagliare e potare non sono la stessa cosa? No, non proprio… Tagliare è un’operazione che si fa tra marzo e aprile ed è la cosiddetta «arrimunnata», cioè si taglia e si toglie tutto ciò che è morto, tutto ciò che finirebbe per far danno (i «sancisuca», i «sarvaggi»), i rami infruttuosi, i tralci che potrebbero diventare intralcio per la vita della pianta. Potare, invece, è un’operazione che si fa ad agosto ed è un’azione di purificazione. Viene tolto il superfluo (cfr. fichi d’India, i «scuzzulati»). È un’operazione dolorosa per la pianta, che «piange», fa scorrere la linfa dal taglio, ma è un gesto necessario, perché permetterà alla pianta di concentrarsi «solo» sui frutti futuri. «Rimanete in me e io in voi» (Gv 15,4). Gesù ripete per sette volte in quattro versetti, la parola rimanere. Il Signore è stato colpito da arteriosclerosi? No, certamente! Semplicemente ci sta dicendo quale è la parola chiave del testo, la parola che ci permette di capire tutto. Non so voi, ma sentire questa parola, ripetuta più volte, mi provoca il brivido di una carezza, la certezza del conforto. Gesù non sta parlando di una frequentazione casuale («Ogni tanto fatevi vedere!»), ma di un qualcosa che dice relazione e intimità. Quando invitiamo qualcuno a rimanere a cena a casa nostra, non è che dopo un minuto lo cacciamo via, anzi, cerchiamo di metterlo a suo agio, cerchiamo di prendere, di dedicargli, tutto il tempo necessario, perché nella nostra casa si senta accolto. Attenzione però a pensare che Gesù ci stia proponendo un’esperienza mistica, un’esperienza in cui dobbiamo stare a mezzo metro da terra. Il Signore sta semplicemente richiamando la nostra attenzione su un possibile rischio, quello di saper parlare di Dio, di essere laureati nelle cose di Dio, ma non essere capaci di fare esperienza di Dio, di non riuscire a parlare con Lui. Gesù non è solo un maestro spirituale, tra i tanti che sono esistiti a ogni latitudine religiosa, ma è Colui che ci insegna una relazione nuova con Dio. Per essere discepoli di Cristo, per essere cristiani, occorre vivere di Lui, vivere con Lui. Può succedere che Dio lo diamo per scontato, come, per esempio, diamo per scontato il respirare… E invece abbiamo bisogno del Signore allo stesso modo in cui abbiamo bisogno del respirare. «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me» (Gv 15,4). Anche chi non ha studiato botanica o agraria, anche chi non è contadino o ha il pollice verde, sa che il tralcio, o un ramo qualsiasi, da soli, staccati dalla vite, dal tronco, non possono portare frutto, anzi si seccano e muoiono. Così è la nostra vita senza Cristo, destinata a morire secca e infruttuosa. «Chi rimane in me porta molto frutto» (Gv 15,5). Il rimanere è frutto dell’abbraccio di due libertà, la nostra e quella di Dio. Sono due mani che si stringono. Ma la cosa ancora più interessante è che il nostro cammino di fede non è, come siamo soliti vederlo, un progressivo avvicinarsi a Dio, perché a Lui siamo già attaccati, ma il nostro itinerario spirituale, è un decidersi, un lavorare per restare attaccati a Lui. «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). Potrebbe apparire una condanna, ma in realtà non lo è. Si tratta di una constatazione. Gesù ci sta dando un suggerimento, un aiutino, a noi che siamo in ricerca di senso. Solo in Lui possiamo ogni cosa, dirà Paolo nella Lettera ai cristiani di Filippi (Cfr. Fil 4,13). «Chiedete quello che volete e vi sarà fatto» (Gv 15,7). Per la serie «ogni vostro desiderio è un ordine». In realtà, che mi risulti, non è che Dio sia poi così… Uno prega, chiede, fa rosari e coroncine, ma lui non ci esaudisce… Gesù non dice: «Fate i capricci e vi accontento», ma ci dà la «conditio sine qua non» che è il «restare» in Lui. Se stiamo in Lui, se in Lui rimaniamo, certamente finiremo per chiedere solo ciò che è giusto chiedere e che Dio ci concederà. L’immagine della vite e dei tralci è meno tenera forse di quella del buon pastore, ma certamente più forte e incisiva. Esistono pecore senza pastori e pastori senza pecore, ma non esistono viti senza tralci e tralci senza viti. Diceva Agostino: «Aut vitis, aut ignis – O la vite o il fuoco», senza mezze misure! Con questa immagine il Signore ci sta dicendo che per vivere, per portare frutto, abbiamo bisogno di Lui, ma ci dice pure, e questo è a dir poco rivoluzionario, che Lui, Dio, ha bisogno di noi per vivere, per fare frutto, per scrivere altre pagine veramente interessanti nella storia dell’umanità.


Quinta Domenica di Pasqua

«Io sono la vite, voi i tralci» (Gv 15,1).

L’immagine dei tralci e della vite usata da Gesù ci dice in che cosa consiste l’intimità tra noi e Dio. Noi abbiamo bisogno di Dio perché la nostra vita abbia un senso. Ma anche Dio (e questo è rivoluzionario!) ha bisogno di noi scrivere altre pagine della storia dell’umanità. Il Signore, col suo pollice verde, ci aiuti a non opporre resistenza ai tagli e alle potature, dolorosi, ma necessari. Buona V di Pasqua.


Quarta Domenica di Pasqua

«Il pastore dà la vita per le pecore» (Gv 10,11).

Tutti siamo chiamati a imitare Gesù buon pastore. Non è una competenza esclusiva di papa, vescovi, preti e affini. È responsabilità di tutti. Tutti siamo chiamati a “dare la vita” per gli altri, nel concreto, nella quotidianità. Come? Imparando a donare una cosa che pare stia diventando sempre più rara e preziosa: il nostro tempo. Impariamo a donarlo e impariamo ad esserci per l’altro. Buona IV Domenica di Pasqua.


Pastore, pecore e cani di mannara

IV Domenica di Pasqua – 21 Aprile 2024

Prima lettura – At 4,8-12: In nessun altro c’è salvezza. Dal Salmo 117: La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo. Seconda lettura – 1Gv 3,1-2: Vedremo Dio così come egli è. Vangelo – Gv 10,11-18: Il buon pastore dà la propria vita per le pecore.

Viviamo il tempo di Pasqua, un tempo abbastanza lungo di 50 giorni, ben 7 settimane, in cui la Chiesa ci aiuta ad entrare, lentamente, ma inesorabilmente, nel mistero della Risurrezione. Abbiamo bisogno di tempo, perché è un evento così straordinario che non lo si può comprendere tutto in una volta. Abbiamo bisogno di tempo, perché anche noi, come i discepoli, abbiamo bisogno di tempo per convincerci che è vivo! Siamo alla IV Domenica di Pasqua, siamo a metà della cinquantina pasquale e dovremmo chiederci a che punto siamo nell’apertura dei nostri occhi per scoprire il dono che Dio ci ha fatto. La domenica di oggi è detta «Domenica del Buon Pastore» e prende il nome dalla pagina del Vangelo, presa dal capitolo X del Vangelo di Giovanni, in cui Gesù riferendosi a se stesso si presenta come il «bel pastore» (Cfr. Gv 10,11). Gesù si autodefinisce quindi come pastore. Non si tratta di Javier Pastore ex giocatore del Palermo passato al Paris Saint Germain. Forse quella del pastore è un’immagine desueta, sorpassata, antiquata, magari relegata alla nostra infanzia, quando ancora si potevano incrociare, andando in campagna, pastori e greggi di pecore. Oppure qualcuno di noi ha in mente Heidi, il nonno, Peter e Fiocco di neve. Oggi, probabilmente è difficile cogliere e apprezzare l’immagine di Gesù come pastore. L’immagine del pastore è parecchio presente nell’AT e per Israele è qualcosa di ben conosciuto. Quando gli ebrei parlavano di pastore pensavano a Mosè, guida del popolo nell’Esodo, pensavano a Davide, il re scelto mentre era a pascolare, ma soprattutto (cfr. i profeti, in particolare Ezechiele) il pastore era Dio, l’unico capace di pascere il suo gregge. «Io sono il buon pastore» (Gv 10,11). Gesù si presenta così, senza troppi giri di parole. Afferma che lui è il pastore quello buono, quello bello. Da cosa scaturisce questa bontà/bellezza? «Il pastore dà la vita per le pecore» (Cfr. Gv 10,11). Gesù lo ripete ben cinque volte, per i non capenti, forse. Il buon pastore è disposto a morire pur di salvare le sue pecore. Queste parole del sgombrano il campo da quelle immagine dolciastre di Gesù con i boccoli d’oro, con gli occhi azzurri, che tiene la pecorella sulle spalle. Il Signore ha fatto tutto sul serio, è morto veramente, senza babbio. E per farci capire chi è il vero pastore, Gesù fa una specie di pubblicità comparativa tra il pastore e il mercenario. Apparentemente hanno lo stesso ruolo, fanno le stesse cose, da mattina a sera, portare al pascolo, riportare all’ovile, mungerle. Ma in realtà si differenziano per il rapporto con le pecore. Per uno, il pastore, le pecore sono il tutto, è disposto a rischiare la vita pur di custodirle, perché le pecore gli importano. Per l’altro, il mercenario, conta solo il 27 del mese, il giorno dello stipendio, non hanno nessuna intenzione di rischiare la loro vita per le pecore, che, anzi, in caso di pericolo possono pure rappresentare un ostacolo all’incolumità, una zavorra di cui disfarsi. «Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me» (Gv 10,14). Nell’antichità era diffuso che le pecore di più padroni, la sera, venivano, per motivi di sicurezza, collocate in un solo recinto; poi la mattina, ogni pastore chiamava le proprie pecore, che lo riconoscevano dal timbro della voce. Gesù ci sta dicendo che seppure inseriti nel mondo, i cristiani sono chiamati a riconoscere la voce del Signore. Tutti siamo chiamati a essere come il «buon pastore». Non è una prerogativa esclusiva, una competenza riservata al papa, ai vescovi, ai preti e affini. È responsabilità di tutti. Tutti siamo chiamati a «dare la vita» per gli altri, nel concreto, nella quotidianità. Come possiamo dare la vita? Imparando a donare una cosa che pare stia diventando sempre più rara: il tempo. Il nostro tempo è prezioso, il proverbio di che «è denaro». Impariamo a donarlo. Impariamo a essere tutto per l’altro, a esserci per l’altro. «Conosco le mie pecore» (Gv 10,14). Mi commuovono queste parole. Non siamo un numero o un nome scritto nell’anagrafe del cielo, ma siamo tutti, singolarmente, nel cuore di Dio, che conosce ognuno come se fosse l’unico uomo sulla Terra. Siamo chiamati ad essere pecore, cioè a prendere sul serio le parole di Gesù e riferirci a lui nelle scelte quotidiane. Non facciamo i pecoroni che seguono, senza battere ciglio, chi li precede, mantenendo il cervello rigorosamente disinserito. Dal 1964, per volontà di Paolo VI, nella IV di Pasqua si celebra la GiornataMondialedelle Vocazioni. Il tema di quest’anno è «Rispondere all’ Amore… si può». Il Signore ci ha donato la Chiesae i pastori che la guidano. In realtà, a essere precisi, non si tratta di pastori, ma di cani pastori, cani da greggi, cani di mannara, capaci di condurre il gregge, le pecore, all’unico ovile, ma soprattutto al Pastore unico. Perché per dirla con le parole di Pietro davanti al Sinedrio «In nessun altro c’è salvezza» (At 4,12). Chiediamo al Signore di spargere nel cuore di tanti giovani germi di vocazioni e il coraggio di abbandonarsi definitivamente al sogno di Dio. Pretendiamo dai nostri sacerdoti che ci dicano con le parole e la vita solo ciò che hanno di più prezioso, Cristo… Perché solo in lui c’è salvezza!


Il touchChrist

III Domenica di Pasqua – 14 Aprile 2024

Prima lettura – At 3,13-15.17-19: Dio l’ha risuscitato dai morti. Dal Salmo 4: Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto. Seconda lettura – 1Gv 2,1-5a: Cristo è vittima di espiazione per i nostri peccati. Vangelo – Lc 24,35-48: Il Cristo doveva patire e risuscitare il terzo giorno.

Stiamo continuando a vivere «la Cinquantina Pasquale», il periodo liturgico che va da Pasqua e Pentecoste e chela Chiesa ci fa vivere come un unico giorno, in cui il Risorto non si impone, ma si propone. Il Vangelo che abbiamo ascoltato ci riporta al giorno della Risurrezione. È la sera di Pasqua, del giorno in cui è stato trovato il sepolcro vuoto, il giorno in cui è sparito il cadavere di Gesù. I discepoli sono chiusi ermeticamente nel cenacolo. Hanno paura dei Giudei. Hanno paura di loro stessi: non sono stati capaci di perseverare al fianco di Gesù. Sono chiusi, impauriti, si staranno rinfacciando i rispettivi comportamenti. In questo clima, sono arrivati due discepoli, due uomini di Emmaus, che dopo la morte di Gesù, erano ritornati delusi, tristi, sconfitti al loro paese. Sono arrivati di corsa. Hanno il fiatone. Non riescono nemmeno a parlare. Stanno raccontando di un incontro con un viandante, uno sconosciuto, che lentamente gli ha aperto le mente e scaldato il cuore. E proprio quando hanno capito che era il Risorto, è scomparso! Gli altri discepoli stanno ascoltando con interesse e curiosità il racconto dei due di Emmaus, quando si accorgono che c’è Gesù, che sta in mezzo a loro. È un eccesso di misericordia del Risorto. Non fa l’offeso, il sostenuto. Va a cercarli. «Pace a voi!» (Lc 24,36). Questo il dono di Gesù ai suoi. Non è un saluto. Non è un augurio. È una pace diversa, vera. È il riconoscersi inseriti nel sogno di dio. È la pace del cuore e nel cuore. È il vivere in un mare di guai e avere la certezza che il Signore è il nostro salvagente. «Un fantasma» (Lc 24,37). I discepoli ancora non credono. Gesù li ha colti di sorpresa. Pensano si tratti di una suggestione. I discepoli sono abitati dai fantasmi, dal turbamento, dalla paura, dai dubbi. Anche a noi succede di finire vittime delle nostre paura. Perché non riusciamo più a vedere il Signore. Il nostro cuore non coglie più le tracce del suo passaggio nella nostra vita. Oppure perché Dio diventa uno spauracchio, un Dio da tenere a bada con preghiere e preghierine, un Dio da «comprare», da farsi amico, perché uno così «meglio averlo amico che nemico»! «Guardate le mie mani e i miei piedi» (Lc 24,39). Gesù mostra i segni della croce. Inventa il touchscreen, anzi il touchChrist. Gesù mostra le sue ferite e lo fa non per rinfacciare qualcosa ai discepoli. Non è un modo per dire «Brutti schifosi, guardate cosa mi avete fatto!», ma vuole mostrare e dimostrare che in quei segni c’è la salvezza. Gesù, così facendo, mostra il perdono cristiano. Non si tratta di un dimenticare, di un «metterci una pietra sopra», ma è un super dono: «Mi hai fatto male, mi hai ferito, ma il mio amore per te va oltre. Ti guardo attraverso le ferite». «Per la gioia, ancora non credevano» (Lc 24,41). Continua la paura, il terrore. È troppo bello per essere vero! Il turbamento è suscitato certamente dal vedere il Risorto, ma sopratutto colpisce il vedersi amati e cercati, nonostante il tradimento. Anche noi, dopo il peccato, facciamo fatica ad accettare che Dio ci ama comunque, che Dio nonostante tutto ha misericordia per noi. Stenta ancora a crederci. È incredibile che sia Risorto. Una fede senza dubbi è pericolosa, nociva, dannosa. La fede non è una sicurezza acquisita per sempre. Il vescovo teologo Bruno Forte afferma che «Il cristiano è un ateo che ogni giorno si sforza di credere». I dubbi non sono nemici della fede. Anzi… Possono essere sprone e stimolo. «Avete qualcosa da mangiare?» (Lc 24,41). Gesù ha fame. Sono tre giorni che non mangia. E poi siamo ormai a Pasquetta… Al di là dello scherzo, Gesù sta mostrando che è vivo e vero, sta dando una prova fisiologica che è carne resuscitata. «Gli offrirono una porzione di pesce arrostito» (Lc 24,43). Mi ha sempre colpito questa scena… E quando mi capita di mangiare pesce arrosto, mi ricordo del Vangelo e mi emoziono, nel pensare che probabilmente Gesù ha sentito lo stesso sapore. Questa scena mi colpisce perché ci dice che Gesù è vicino a noi più di quanto possiamo immaginare, nelle cose di ogni giorno, nel sapore del cibo, nei gesti quotidiani. «Di questo voi siete testimoni» (Lc 24,48). Il Vangelo di oggi si conclude con un compitino per casa. I discepoli devono dire chela Risurrezionenon è una teoria, una favola che inizia con «C’era una volta…» e finisce con «E vissero felici e contenti!» e che parla di Gesù, ma un evento concreto, vero, reale. Questo compitino, che io sappia, i discepoli lo hanno svolto benissimo… Quel compitino è pure per noi. Anche noi siamo chiamati a dire Cristo, non con le parole, ma con la vita di ogni giorno e di tutti i giorni. Non accontentiamoci di conoscerlo solo per sentito dire, facciamo esperienza di Lui. Non accontentiamoci di essere «cattolici della domenica». Scrive Ignazio di Antiochia: «È meglio essere cristiano senza dirlo che proclamarlo senza esserlo». È complicato, ma non difficile. Possiamo e dobbiamo riuscirci. Coraggio! Il Signore è veramente risorto ed è apparso ai discepoli


Terza Domenica di Pasqua

«Ancora non credevano» (Lc 24,41).

Gesù appare ai suoi discepoli, chiusi ermeticamente nel cenacolo. I discepoli sono turbati dal vedere Gesù risorto, ma sopratutto dal vedersi amati e cercati nonostante il loro tradimento e la loro fuga. Gesù fa il primo passo e viene a cercare anche noi, chiusi nelle nostre paure e nei nostri dubbi.Spalanchiamo le porte a Cristo, certamente non rimarremo delusi! Buona III di Pasqua.


Seconda Domenica di Pasqua, in Albis, della Divina Misericordia

«Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28).

Il Vangelo propone oggi la figura di Tommaso, sbrigativamente etichettato come l’incredulità fatta persona. In realtà è un uomo, un credente che ci assomiglia, che dice di noi, delle nostre difficoltà a credere. Tommaso è icona del credente vero, di chi non s’accontenta di una fede subita per tradizione, di chi non teme di farsi domande, di chi crede per capire e capisce per credere Chi di noi non ha arrancato come lui, chi di noi non ha vissuto la sua stessa fatica? Tommaso arriverà, alla fine, a professare la sua fede in Cristo! E noi a che punto siamo? Buona domenica della Divina Misericordia.


Gesù e Tommaso: i gemelli alla resa dei conti

Domenica in Albis o della Divina Misericordia – 7 Aprile 2024

Prima lettura – At 5, 12-16: Venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e di donne. Dal Salmo 117:Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre. Seconda lettura – Ap 1, 9-11.12-13.17.19: Ero morto, ma ora vivo per sempre. Vangelo – Gv 20,19-31: Otto giorni dopo, venne Gesù.

Celebriamo oggi la Seconda Domenica di Pasqua, non dopo Pasqua, ma di Pasqua. Perché questa puntualizzazione? Perché questi otto giorni sono un tutt’uno, sono un tempo, il nostro tempo, ma sono pure fuori dal tempo, anticipo del tempo di Dio che è l’eternità.

Questa domenica è chiamata anche Domenica in Albis, dalla prassi liturgica della Chiesa antica che prevedeva che coloro che avevano ricevuto il Battesimo nella notte di Pasqua, dismettessero oggi, dopo otto giorni, la veste bianca, simbolo della loro nuova dignità, indossata durante la veglia e portata per tutta la settimana.

La domenica di oggi è diventata per volontà del beato Giovanni Paolo II, Domenica della Divina Misericordia Amore di Dio ci avvolge e ci rimette in piedi, anche dopo le peggiori cadute. San Giovanni nella sua Prima Lettera scrive: «Qualunque cosa il tuo cuore ti rimproveri, Dio è più grande del tuo cuore!» (1Gv 3,19-20) e Santa Teresa di Lisieux rincara la dose, incoraggiando anche i più grandi peccatori a non dubitare mai della forza dell’Amore misericordioso: «Se avessi commesso tutti i crimini possibili, avrei sempre la stessa fiducia, sentirei che questa moltitudine di offese sarebbe come una goccia d’acqua gettata in un braciere ardente» (Teresa di Lisieux, Novissima Verba, 11 luglio 1897). .

E last but not least, infine ma non per ultimo, questa domenica, l’abbiamo sentito dal Vangelo, è la Domenica di Tommaso, rimasto incredulo, nonostante la testimonianza degli altri discepoli. Qualche anno fa, nel 1999 il grande Pietro Garinei portava in scena un musical dal titolo «E meno male che c’è Maria»… Oggi, parafrasando il titolo di quella commedia musicale, dovremmo dire «E meno male che c’è Tommaso»! Come ci dice in una sua celebre omelia sul Vangelo di oggi, S. Gregorio Magno: «A noi, riguardo alla fede, ha giovato molto più l’incredulità di Tommaso, che non la fede degli altri discepoli» (Gregorio Magno, Omelie sui vangeli, 26, 7-9; PL 76, 1201-1202).

Ma andiamo con ordine…

«La sera di quel giorno, il primo della settimana» (Gv 20,19). È il giorno della scoperta della tomba vuota. Il Cristianesimo, se ci pensate, parte, prende le mosse, dalla gioia per l’assenza di un cadavere da imbalsamare, ma soprattutto dalla gioia per la presenza del Risorto!

«Erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei» (Gv 20,19). C’è aria di paura in quella casa. Paura dei giudei, giustamente. Ma anche, e soprattutto, paura di se stessi, della loro incapacità a perseverare, a restare al fianco del Signore.

«Venne Gesù, stette in mezzo…» (Gv 20,19). Non so a voi, ma a me queste parole mi riempiono il cuore. Mi conforta, mi da speranza sapere che se anche trova tutto chiuso, attangato, Gesù non se ne va, l’abbandonato non abbandona coloro che l’avevano abbandonato!

«Pace a voi!» (Gv 20,19). Questo è il saluto di Gesù. Non un semplice augurio, ma qualcosa di più. Gesù sta dicendo a loro (e a noi): «Basta avere paura, basta restare rintanati, c’è là fuori un mondo che aspetta di essere evangelizzato!». La pace che dona Cristo è la consapevolezza di essere nel cuore di Dio, la gioia di scoprire che siamo il sogno di Dio. «I have dream! – Io ho un sogno» diceva Martin Luther King, «I am a dream – Io sono un sogno, il sogno di Dio», dovrebbe dire ogni cristiano.

«Mostrò loro le mani e il fianco» (Gv 20,19). Le ferite di Gesù che a tanti erano apparsi come segno di sconfitta, divengono ora la dimostrazione evidente, tangibile, indelebile, della nostra redenzione. Quelle piaghe sono le feritoie attraverso cui filtra la grazia, sono segno che Dio non ci ha amati per scherzo, per babbio, per fiction.

A questo punto, Giovanni, scrive «E i discepoli gioirono al vedere il Signore» (Gv 20,19). Ci mancasse! Hanno davanti il Signore della vita, forse non dovrebbero gioire? E noi? Tra poco il pane e il vino diventeranno il Cristo vivo e vero, siamo capaci di gioire nel vederlo? O ci siamo assuefatti, n’addummiscieru i cairni? A questa prima apparizione c’è un grande assente, Tommaso. Sgombriamo subito il campo, Tommaso, è vero non crede nonostante la testimonianza di chi ha visto il Risorto, ma non è il discepolo indegno, fituso, esempio accanito di incredulità. Egli è piuttosto immagine dei cercatori di Dio, di chi per trovare il Signore, fa’ un cammino faticoso. Una fede senza ricerca è stagnante, è acqua fitusa. Il Cristianesimo, la fede nel Risorto, non è una esaltazione religiosa o psicologica a basso prezzo, non è accettare un credo preconfezionato. La fede è un cercare per trovare Dio e, dopo averlo trovato, ricominciare a cercarlo nuovamente. Essere cristiani, quindi, significa esporsi alla possibilità del dubbio. Accettare il Vangelo non è prendere una strada diritta e sicura. Tante le domande su Tommaso… Perché, ad esempio, non crede agli altri compagni? Tommaso è un uomo a pezzi. È colpito dalla tragedia, dalla morte del suo migliore amico e quella morte è per lui la parola FINE sui suoi sogni, sulle sue speranze. Tommaso non crede più. Non ha più la forza, il coraggio per farlo. Ha investito troppo, tutto, in quel sogno infranto, per potersi rimettere in gioco. E poi come credere negli altri discepoli? Non sono testimoni credibili, non sono forse fuggiti, scantati, anche loro, proprio quando Gesù aveva bisogno di loro? Un’altra domanda che Tommaso fa’ sorgere è: perché Tommaso non c’era? Non lo sappiamo, Giovanni non lo dice. Forse voleva capire da solo, trovare, da solo, le risposte alle sue domande. Sta di fatto che senza la comunità, senza gli altri discepoli, seppur scassati come lui, si è perso il Signore! Tanti, oggi, dicono: «Cristo sì, la Chiesa no!». Tanti fanno come Tommaso e vogliono cercare Dio in autonomia. Questa si chiama per dirla con Benedetto XVI «Religione fai-da-te» e non porta da nessuna parte! San Cipriano, vescovo, nel III secolo, a Cartagine, diceva: «Habere iam non potest Deum patrem qui Ecclesiam non habet matrem – Non può avere Dio per padre chi non ha la Chiesa per madre». La salvezza non la troviamo altrove. Non sul Postalmarket, non su Ebay, né dal fruttivendolo. È vero stare nella Chiesa non è sempre facile… Ma nessuno può negare che la Chiesa, la comunità, con i suoi pregi e i suoi difetti, è la via principale attraverso cui Dio ci dona la sua salvezza. Don Lorenzo Milani, il Priore di Barbiana, diceva spesso: «Mi chiedono spesso perché sto nella Chiesa, perché non ho lasciato la ditta… Io la Chiesa non la lascerò mai, manco a pedate nel sedere, perché non posso vivere senza i suoi sacramenti e senza il suo insegnamento». La salvezza non è un prodotto da consumare singolarmente, privatisticamente. È la Chiesa, la comunità, il luogo dell’incontro col Risorto. Guai a noi se pensiamo di farne a meno.

«Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso» (Gv 20,26). Gesù torna. Uno come Tommaso non lo vuole perdere. È tornato apposta per lui, così come torna apposta per ciascuno di noi. È il segno evidente che egli comprende la nostra difficoltà a credere nella sua e nella nostra risurrezione. E Gesù, come richiesto da Tommaso, mostra le sue ferite… Povero Tommaso! Sarà rimasto di stucco, ma sono certo, non avrà chiesto certificati di garanzia o fotocopie della carta d’identità.

«Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28). Questo di Tommaso è uno dei più grandi atti di fede della storia. Tommaso capisce, finalmente, che dinanzi a lui non c’è solo il Maestro di Nazareth, ma anche e soprattutto il Signore Dio.

«Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (Gv 20,29). Provvidenziale, come dicevamo, l’assenza di Tommaso… Il suo non esserci, permette a Gesù di dirci beati! Beati noi che pur non avendo visto crediamo. Felici noi che pur andando a tentoni, pur arrancando, crediamo. Pieni di gioia noi che non ci preoccupiamo della velocità del procedere, ma della perseveranza del camminare. Raggianti perché sperimentiamo come il credere sia un nuovo modo di vedere, di sentire, di sperimentare la presenza del Signore.

«Tommaso, chiamato Dìdimo» (Gv 20,24). Tommaso ha un soprannome, a n’ciuria. È detto gemello. Probabilmente somigliava a Gesù. Stessi occhi, stesso naso, stessa inflessione della voce in dialetto nazaretano. Chissà quante volte li avranno scambiati. Anche noi, in quanto cristiani, seguaci di Cristo, dobbiamo somigliare a Cristo, diventare Dìdimi, gemelli di Gesù. Dobbiamo diventare capaci di somigliare a lui, di appartenere a lui, di essere come lui, di testimoniare lui. L’augurio più forte che posso fare a me e a tutti voi è che, incontrandoci per strada, mentre viviamo le nostre vite, chi ci incrocia, possa vedere in noi Cristo, possa scambiarci per Cristo, possa pensare che siamo veramente suoi gemelli. Auguri.


Biati l’occhi ca vittiru a Pasqua – Beati gli occhi che hanno visto Pasqua

Domenica della Risurrezione – 31 Marzo 2024

Prima lettura – At 10,34a.37-43: Abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la risurrezione. Dal Salmo 117: Questo è il giorno che ha fatto il Signore: alleluia, alleluia. Seconda lettura – 1Cor 5,7-8: Cercate le cose di lassù, dove è Cristo. Vangelo – Gv 20,1-9: Cristo è risorto!

Non so se c’avete mai pensato, ma noi, oggi, facciamo festa per un cadavere che non si trova e per un sepolcro vuoto. Strana specie i cristiani. Proprio simili al loro Signore, capace di morire in Croce pur di salvare la pellaccia all’umanità! Ma ricostruiamo i fatti… Il 7 aprile dell’anno 30 dopo Cristo, ufficialmente per motivi politici («Incita il popolo contro Roma!» avevano detto i giudei a Pilato), ma in realtà per motivi religiosi («Quest’uomo ci sconvolge la teologia se ci dice che il Dio innominabile è suo padre, è nostro padre» dicevano tra loro i giudei) Gesù di Nazareth, figlio di Giuseppe il falegname e di Maria di Nazareth viene ucciso inchiodato ad una croce come il peggiore dei delinquenti. I suoi amici, quelli rimasti almeno, lo hanno, con una certa fretta, levato dalla croce e messo in un sepolcro nella zona del Golgota, dove era stato crocifisso. Torneranno dopo Pasqua, a Pasquetta, per sistemarlo definitivamente. C’è tanta tristezza nel loro cuore. Tanta delusione. I loro sogni sono andati in frantumi. Una pietra è stata messa sul sepolcro. È la parola fine sulla vicenda di Gesù, quel rabbi capace di dire Dio. All’alba del 9 aprile, il primo giorno utile dopola Pasqua, nel buio che precede l’alba, si sentono dei passi leggeri, di donna. È Maria di Magdala. Una fra i tanti che avevano avuto la vita rivoluzionata dall’incontro con Gesù. È una donna dal passato devastato, ma risorta dopo che il suo sguardo aveva incrociato lo sguardo di Cristo. Maria non riesce proprio a rassegnarsi. Non può finire così. Maria sta andando al sepolcro, forse vuole ricomporre al meglio il cadavere del Maestro. A pochi passi dal sepolcro, si accorge di qualcosa di strano. «Vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro» (Gv 20,1). E comincia a correre. Più che una pagina del Vangelo, quella di oggi sembra la radiocronaca dei 100m alle Olimpiadi! Corre Maria, corre verso la casa dove si trovano gli altri. Corre Maria alla ricerca di altri che possano vedere quello che ha visto lei. Ma chi le crederà? Lei è una donna e i rabbini al riguardo erano chiari: «Non credete alle parole dei pastori e delle donne. E non chiamateli mai a testimoni!». Ma Maria corre lo stesso. Va incontro a Pietro e Giovanni, loro certamente le crederanno. «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!» (Gv 20,2). E si ricomincia a correre. Stavolta è la batteria maschile. Corrono Pietro e Giovanni. Due generazioni diverse. Due stili di vita diversi. Giovanni è più giovane e arriva per primo. Tutto è come ha detto Maria. Non si è trattato di una sua allucinazione. Ma non entra nel sepolcro, Giovanni. Aspetta Pietro. Entreranno insieme: quattro occhi sono meglio di due. Finalmente Pietro arriva. Ha il fiatone. Dice che da lunedì si metterà a dieta, perché ne ha proprio bisogno dopo la grande abbuffata di agnello del giorno di Pasqua. Entrano dentro. Non c’è traccia di Gesù. Ma come è possibile? Il suo cadavere era lì, posato, pronto per essere imbalsamato. E ora ci sono solo i teli che lo coprivano, per giunta posati con cura e piegati. Non può essere stato rubato, i ladri fanno tutto di corsa e non perdono tempo a mettere in ordine. «E vide e credette» (Gv 20,8). Non so a voi, ma a me sta frase mi fa impazzire! Proprio strano sto Pietro. Era con Gesù fin dalla prima ora. Ne aveva visto di tutti i colori, miracoli a volontà, decine di parabole sul Regno… E solo ora crede? Solo ora capisce? Sì, proprio così, è solo dinanzi al sepolcro vuoto che capisce che il Maestro sconfitto, inchiodato sulla croce, rinnegato da lui, è in realtà il Dio vittorioso, il Dio risorto. Non è facile credere alla risurrezione. Alla crocifissione sì… Il sangue, i chiodi, le urla di dolore, sono più eloquenti di un sepolcro vuoto. La risurrezione è questione di fede. È una vita nuova che nasce dall’esperienza di un fallimento. Una vita che non conosciamo, ma a cui aspiriamo, una vita totale senza più morte. Coraggio! Il Signore è risorto. Questo è il centro della nostra fede. Non restiamo accampati sotto la croce a piangerci addosso. Rotoliamo via le pietre che sono sui nostri cuori delusi. È Pasqua. Un proverbio dice: «Biati l’occhi ca vittiru a Pasqua – Beati gli occhi che hanno visto Pasqua». E io vi auguro occhi capaci di vedere l’essenziale e di credere in Dio. Pasqua è questione di occhi… È guardare che delle bende che prima avvolgevano un corpo, sono lasciate in un angolo del sepolcro, è accorgersi che la pietra, che gli uomini avevano messo per chiudere la vicenda umana del Dio fatto carne, è stata ribaltata, è, infine, vedere una tomba vuota e capire che davvero il Signore è risorto. Il Signore ci conceda di avere occhi di Pasqua. Auguri!


Pasqua di Risurrezione

«Vide e credette» (Gv 20,8).

Proprio strani i Discepoli. Erano stati con Gesù fin dall’inizio, ne avevano visto di tutti i colori, miracoli a fiumi, e solo ora, vedendo il sepolcro vuoto, credono? Pasqua è questione di occhi: è guardare delle bende che prima avvolgevano un corpo, ora lasciate in un angolo, è accorgersi che è stata ribaltata la pietra messa per chiudere e liquidare la “Questione Gesù”, è infine, guardare un sepolcro vuoto e capire che Colui che è rimasto domiciliato lì per tre giorni, è risorto. Il Signore ci conceda occhi di Pasqua. Auguri.